Sicilia, estate 1860. Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina (Burt Lancaster), è intento ad officiare il Santo Rosario, alla presenza di Padre Pirrone (Romolo Valli) e dei componenti della nobile famiglia che risiedono nella ricca dimora. Sono giorni di grande tumulto, i Mille di Giuseppe Garibaldi hanno fatto sbarco sull’isola, l’eco sanguinoso della battaglia giunge anche nel giardino del palazzo, dove viene rinvenuto un soldato morto.
Ma non è solo questo tragico episodio a far sì che il Principe comprenda quanto i recenti accadimenti siano ormai prossimi a mutare l’attuale stato delle cose:l’amato nipote Tancredi Falconeri (Alain Delon), infatti, lo rende edotto, entusiasta, del suo arruolamento fra le fila dei garibaldini; Palermo è in rivolta e l’annessione allo Stato Sabaudo può dirsi prossima, evento quest’ultimo, a dire del giovane, apportatore di grandi novità per la regione, occorre saperlo sfruttare. Lo zio ascolta pensieroso ed infine ne approva il comportamento, ormai rassegnato al rapido incedere di un’era inedita, la quale recherà con sé certamente un sentore d’innovazione, almeno per i primi tempi, per poi assestarsi sul consolidamento di una consuetudinaria immutabilità, ovvero uomini nuovi al comando ed inveterati accomodamenti nella gestione del potere.

Mantenendo un contegno fiero ed imperturbabile, Don Fabrizio conduce la consueta esistenza, a partire dalla villeggiatura a Donnafugata, dove ad attenderlo vi è il sindaco Don Calogero Sedara (Paolo Stoppa), simbolo del “nuovo che avanza”, entrato da poco a far parte della “società bene”, grazie alle sue fortune finanziarie. La simpatia che si viene da subito a creare fra Tancredi e la figlia del primo cittadino, Angelica (Claudia Cardinale), suggerirà al Principe le opportune modalità d’adesione alle novità del momento, il plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia ha avuto esito favorevole, per cui benedice l’unione tra i due giovani e, nel corso di un sontuoso ricevimento nel Palazzo Ponteleone a Palermo, osservando con disincanto misto a disillusione tutta quella nobiltà ormai incancrenita, già prona ai nuovi regnanti (lo stesso Tancredi ha lasciato i garibaldini per arruolarsi nell’esercito italiano), comprende di essere simbolo di un vetusto passato e, nell’avviarsi a piedi verso casa, invoca alla prima stella del mattino un appuntamento meno effimero, “nella tua regione di perenne certezza”…

Diretto da Luchino Visconti, adattamento dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli, 1958), per la sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli e dello stesso regista, Il Gattopardo è un’opera che unisce una conclamata magnificenza spettacolare ad un’accurata, realistica, ricostruzione storica, cui contribuiscono, sinergicamente, la fotografia di Giuseppe Rotunno, incline a seguire la luminosità naturale, in interno come in esterno, la scenografia di Mario Garbuglia ed i costumi di Piero Tosi. Il tutto, però, senza mai perdere di vista l’assunto socio-politico proprio del testo d’origine, rielaborato da Visconti nelle forme di una pregnante allegoria sulla potenzialità trasformistica propria del potere costituito e delle classi dominanti che ne rafforzano l’ossatura: un’onda tumultuosa che attraversa la Storia, connotandola di circostanze, situazioni ed avvenimenti che trovano la loro valenza non solo nel comprendere ciò che si è stati ieri, ma anche, se non soprattutto, quel che si è divenuti oggi.

Fin dalla splendida sequenza d’apertura, le insistenti carrellate che dall’esterno di Palazzo Salina ci conducono al suo interno, facendoci conoscere uno dei vari rituali quotidiani di Don Fabrizio, interpretato con naturale immedesimazione da Burt Lancaster, possiamo notare come l’obiettivo della macchina da presa, quindi la visione di Visconti, tenda ad immedesimarsi con il progressivo atteggiamento della nobile figura nei riguardi di quei mutamenti ormai in atto, una volta illuminato, pressoché definitivamente, dalla frase formulata dal nipote Tancredi, un suadente ed espressivo Delon, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, sintomatica dei nuovi tempi che verranno, quando i gattopardi, i leoni, saranno sostituiti dagli sciacalli e dalle iene e “tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli, pecore, continueranno a credersi il sale della terra”. L’iter narrativo, piuttosto fluido, asseconda, come già scritto, il consueto realismo viscontiano (le sequenze della battaglia a Palermo, per esempio, dal sapore documentaristico, fra scontri sanguinosi e subitanei linciaggi) e fa sì che ogni singolo avvenimento nella sua successione temporale vada a costituire la spinta propulsiva idonea a condurre alla teatrale visualizzazione della celebre sequenza del ballo, spettacolare ed allegorica al contempo, dove le musiche di Nino Rota trovano confluenza in un inedito valzer di Giuseppe Verdi (si racconta che lo spartito sia stato rinvenuto casualmente dal montatore del film, Mario Serandrei, e da questi donato a Visconti).

Ecco la visione di una società intenta a perseguire i propri agi assecondando il vento, dando vita ad impensate alleanze tra la vecchia aristocrazia e la nuova classe borghese, arrivista ed opportunista in eguale misura; lo stesso Don Fabrizio, sacrificando la propria figlia Concetta nel benedire l’unione del nipote con Angelica, ben resa da Claudia Cardinale nella sua sfrontata schiettezza, rivolge i suoi sforzi all’avverarsi della descritta coalizione, ma nella ferma consapevolezza (il rifiuto rivolto al messo sabaudo, che gli offre un posto in Senato) dell’impossibilità di mutare la condizione di quanti si credono Dei, aspirando, consapevolmente, all’oblio. Concludendo, si può certo affermare, come sostenuto da molti, che sia nel libro sia nel film convergono tematiche verghiane (la descrizione della vita sociale, la ritualità dell’esistenza) e proustiane ( la memoria del passato quale ritrovata coscienza del presente), anche se ad emergere a tutt’oggi, nella limpida attualità dell’assunto, è l’abilità, ormai acquisita, nell’adattare vecchie regole o inveterate consuetudini a quelle nuove, rese necessarie dai continui mutamenti sociali, offrendo agli astanti la pantomima che siano quest’ultime a prevalere. Fra i premi conseguiti da Il Gattopardo, la Palma d’Oro al 16mo Festival di Cannes e due Nastri d’Argento (Miglior Fotografia e Scenografia).
Da Diari di Cineclub N°68- Gennaio 2019