A Gioiosa Ionica, quest’anno, la festa di San Giovanni Battista, che ricorre tradizionalmente la notte del 24 giugno, non potrà essere celebrata a causa di un urgente intervento di restauro sulla Chiesa Matrice. Per questo motivo, in paese, in questi giorni, si parla della vecchia festa di San Giovanni con un forte senso di nostalgia, che ha permesso ai residenti più anziani, vera e propria memoria storica dei nostri centri, di rievocare tradizioni popolari che, per secoli, hanno caratterizzato la vita di questo pittoresco centro della Locride. Per cercare anche noi di rievocare usi e costumi del passato, ci siamo rivolti a Tiziano Rossi, studioso di tradizioni popolari con il quale avevamo già fatto una bella chiacchierata sul carnevale nella Locride lo scorso marzo.

La Chiesa Matrice di Gioiosa Ionica

«La festa di San Giovanni affonda le proprie radici ai tempi degli antichi romani – comincia a raccontarci Rossi, – ma, pur essendo adottata molto presto dalla Chiesa come rituale cristiano, la contesa relativa alla paternità della sua ritualità con le comunità pagane sarebbe stata risolta solo con l’emanazione dell’editto di Teodosio, ultimo imperatore romano d’oriente, che avrebbe bandito completamente i festeggiamenti pagani nel 380. A partire da quel momento, ovviamente, la Chiesa dovette rivedere il culto, ma certe abitudini, dure a morire, vennero con il tempo tollerate sopravvivendo fino ai giorni nostri.
«La notte di San Giovanni, nell’immaginario collettivo, è sempre stata considerata una notte magica, in cui, come diceva William Shakespeare, “i sogni sono veritieri e ciò che è impossibile si avvera”. Questa notte delle magie e delle superstizioni, a Gioiosa, era considerata il momento ideale per rinsaldare i vincoli di amicizia tra uomini o donne che diventavano comari o compari. Il “cummaraticu” o “cumparticu” della notte di San Giovanni veniva infatti considerato un legame indissolubile, che non si sarebbe potuto sciogliere senza offendere il santo (non a caso un antico detto recita che “Sangianni non voli ‘nganni”). Questa tradizione, che veniva poi legittimata dalla chiesa attraverso la cerimonia della cresima, si mantiene ancora oggi, anche se ovviamente il numero di famiglie che la praticano è molto ridotto rispetto al passato. Ciò testimonia quanta importanza si dia a questo rito e ai legami che si consacrano durante quella notte, per quanto un altro detto popolare reciti “Mortu ‘u cumpari, mortu ‘u sangianni” a dimostrazione, forse, della presenza di casi in cui invidie o dispetti tra famiglie avevano viziato il legame tanto da far passare la volontà di non offendere il santo in secondo piano.

San Giovanni Battista

«La festa che si svolgeva in paese, comunque, ha sempre avuto un legame con l’accensione di grandi falò sul sagrato della Chiesa di San Giovanni Battista. Secondo gli antichi culti, infatti, l’accensione del fuoco simboleggiava la purificazione e garantiva l’allontanamento degli spiriti maligni. Accanto a questo culto collettivo, però, la festa veniva celebrata anche tra le mura delle case con metodologie che potevano variare, in certi casi, persino da rione a rione.
«Prima di recarsi alla Matrice a danzare intorno al fuoco, infatti, le “maddamme”, le donne gioiosane che indossavano il costume tradizionale, per evitare che le “magare”, le fattucchiere emarginate in uno dei rioni del paese, ancora oggi chiamato “‘u Vajuni d’i magari”, potessero introdursi nella casa lasciata incustodita rapendo i bambini per rivenderli, avevano l’abitudine di lasciare sull’uscio un mucchietto di sale, perché si credeva che, per entrare, la donna sarebbe stata costretta a contare tutti i grani, un compito che le avrebbe fatto perdere tempo fino all’alba, momento in cui la fattucchiera sarebbe stata costretta a nascondersi per evitare la luce del sole. Non è chiaro se l’obbligo di contare i grani di sale da parte delle “magare” fosse valido in ogni momento dell’anno o solo durante la notte di San Giovanni, certo è che questa piccola precauzione permetteva alle “maddamme” di recarsi in piazza tranquille e di ritrovare tutto in ordine una volta tornate a casa.
«Mentre gli adulti andavano in piazza, inoltre, i bambini e gli anziani restavano in casa e ingannavano il tempo con usanze che dimostrano una volta di più come il credo cristiano non fosse riuscito a cancellare certi riti di chiara derivazione pagana. Ognuno di questi giochi aveva come minimo comune denominatore la volontà di fantasticare sul futuro, sui misteri della vita e sui segreti dell’amore. I ragazzi, ad esempio, erano soliti testare se i loro sogni di gioventù si sarebbero realizzati o meno semplicemente prendendo una striscia di stoffa della larghezza di 3 o 4 centimetri e avvolgendola attorno a un bastoncino di legno. Stringendo il bastoncino nella mano destra, il giovane pensava a ciò che voleva fare da grande per poi sfilare l’intreccio di stoffa dal legnetto. Se il tessuto fosse venuto via senza restare impigliato nel legno i desideri del ragazzo si sarebbero avverati, altrimenti avrebbe dovuto attendere un intero anno per fare un altro tentativo. Stesso scopo aveva l’operazione di versare a sera il bianco d’uovo all’interno di un bicchiere colmo d’acqua da parte delle ragazze: se, il mattino seguente, le giovani avessero trovato uno strato di bollicine sull’acqua avrebbero trovato un marito bello, buono e ricco, altrimenti anche loro avrebbero dovuto attendere l’anno successivo per fare un nuovo tentativo. Una variante di questi giochi, diffusa almeno fino alla metà del secolo scorso, coinvolgeva gli adolescenti che, per scoprire che lavoro avrebbero fatto da adulti, scioglievano del piombo in un vecchio pentolino e lo versavano in una bacinella piena d’acqua. A seconda della forma che il piombo, una volta solidificato, avrebbe assunto, i ragazzi cercavano di scorgere in esso gli strumenti che avrebbero utilizzato per il loro futuro lavoro, mentre le ragazze cercavano di scorgere i lineamenti dell’uomo che avrebbero sposato. Altra usanza simile e assai diffusa tra le giovani, consisteva nel curare un’erbetta raccolta quaranta giorni dopo Pasqua e conosciuta come “ombelico di Venere”. Se entro la festa di San Giovanni la piantina, appesa al muro della propria casa o dietro alla porta, sarebbe fiorita, le ragazze avrebbero potuto sperare in un bel matrimonio, ma siccome curare questa pianta era assai difficile, non era raro che il pavoneggiarsi delle giovani che fortunosamente riuscivano a farla fiorire creasse delle inimicizie con chi, invece, aveva fatto morire la pianta.

“’u chjumbu squagghjatu”, uno dei metodi più diffusi tra i ragazzi per “predire” il proprio futuro

«Ma la festa era importantissima anche per i contadini, che durante la notte di San Giovanni erano protagonisti di riti e usanze che cercavano di prevenire l’eccessiva siccità dell’imminente stagione arida o ricercavano maggiore fortuna per la raccolta dell’anno successivo.
«La festa era anche il momento ideale per fare i “pricanti”. Si trattava di una sorta di implorazione, o di scongiuro, che veniva formulata come se fosse una preghiera con lo scopo di ricevere delle piccole grazie. Molto diffuso era quello che serviva a togliere le verruche, che consisteva nel “pricantare” la verruca osservandola intensamente recitando la seguente filastrocca: “Luna, luna tunda, chistu porru m’u rimunda. Quandu veni ‘a luna nova, chistu porru nomm’u trova”; o quello per evitare la puntura delle vespe, che invece diceva: “Vespa, san Vespa, San Gianni ti molesta, San Gianni ti scungiura, no’ mangiari carni cruda!”
«Questo secondo esempio è davvero molto particolare: innanzitutto perché attribuisce una forma di rispettosa santità alla vespa stessa, alla quale pure ci si rivolge con un singolare “san Vespa” e non con il più corretto “santa Vespa”, ma anche perché il monito a non mangiare carne cruda, prima ancora che essere riferito al desiderio di non essere punti, pare essere una preghiera di non intaccare le dispense di carne, all’epoca preziosissime presso i nostri centri.
«Le suggestioni, che certamente avevano un ruolo nell’eseguire questo genere di rituali, sono state sicuramente determinanti nello sviluppo della credenza che alcune erbe avvizzite, la notte del 24 giugno, diventassero miracolose. Ciò valeva per la ruta, che si riteneva potesse guarire la parassitosi intestinale dei bambini, ma anche per l’aglio secco, che contribuiva a tenere lontani gli spiriti maligni.

I “mastazzola”, biscotti grezzi a base di miele che davano il nome ai venditori ambulanti.

«È difficile capire come mai la Chiesa abbia tollerato tutte questa usanze. Forse perché ha riconosciuto loro il merito di aver rinforzato il tessuto sociale del paese e consolidato i legami tra i compaesani. I legami di comparato, infatti, sono stati per decenni alla base di tutti i vincoli dettati dagli usi e dalle tradizioni locali, come l’obbligo del saluto, dello scambio delle visite e di regali nelle principali feste liturgiche o della carne del maiale durante “‘a domìnica d’i cummari” prima del carnevale. Più evidente è, invece, il legame religioso che la festa ha con il miele. Secondo il racconto del clero, infatti, San Giovanni, per farsi eremita, sarebbe andato a vivere nel deserto, dove si sarebbe sostentato mangiando locuste e miele d’api selvatiche. È per questa ragione che, durante l’allestimento del falò, arrivavano in paese anche i “mastazzolari”, venditori ambulanti che, addossando una cassa di legno al muro della chiesa, vendevano miele locale, “graniteji”, biscotti grezzi fatti di mandorle tritate e ricoperti di abbondante zucchero cristallizzato, o i “mastazzola” che danno loro il nome, dolci a base di miele che venivano impastati in varie forme e dimensioni.

I “graniteji”, dolce tipico a base di mandorle che veniva venduto assieme ai “mastazzola” presso la Matrice.

«Con il tempo, questi riti hanno perso parte del loro significato, anzitutto perché non più legati a un’economia strettamente vincolata a ciò che offre la terra e alla paura di perdere il pane come prima fonte di sostentamento. Fa piacere constatare, tuttavia, che rimane ancora un legame sentimentale con molte di queste tradizioni, che testimoniano la grande volontà di recuperare le usanze del passato e i suoi significati da parte del nostro paese e che, ne sono certo, garantirà alla festa di essere ripresa in grande stile non appena si chiuderà la parentesi del restauro della chiesa».