di Giulia Perri

C’è ancora domani, film scritto, diretto e interpretato da Paola Cortellesi, al suo esordio alla regia, ha vinto 6 David di Donatello, alla 69ma edizione del Premio David di Donatello: premio al miglior esordio alla regia, migliore sceneggiatura originale, migliore attrice protagonista, migliore attrice non protagonista (Emanuela Fanelli), il David dello spettatore (oltre 6 milioni di spettatori paganti), e il David Giovani, che viene assegnato da una giuria composta da giovani delle scuole superiori e delle università.

Sono stata tra i fortunati spettatori dei primi giorni, quando il film non era ancora diventato il “caso” stupendo del cinema italiano che è diventato, sorprendendoci e quasi facendoci sentire “sollevati”: allora forse anche oggi un buon domani c’è ancora.

Ho assaporato, da semplice spettatrice, tutte le sensazioni e le reazioni alla visione del film, in modo spontaneo, senza avere letto le critiche, senza avere visto né letto le interviste a Paola Cortellesi e agli altri interpreti del film. E l’impressione che ne ho tratto, oltre le emozioni che mi ha suscitato, è che il film sia un capolavoro, che rimarrà nella storia del cinema italiano e internazionale.

La narrazione della regista è coinvolgente: la vicenda di Delia, la protagonista, è avvincente, suscita emozioni e a tratti ilarità (questa, è secondo me, una delle “cifre” stilistiche di Paola), si partecipa alla sua vita: cosa farà? dove corre?

Guardando il film – e questo è proprio del grande cinema – lo spettatore ha l’impressione di essere lì, calato negli eventi in una Roma dell’immediato dopo guerra, che si muove incerta e febbrile in una nuova vita in mezzo alle macerie, con gli americani che “occupano”, sia pure amichevolmente, la città fino a poco tempo prima in mano ai nazisti.

La scelta dei coprotagonisti e di tutti gli attori del film è stata molto ben ponderata: sono tutti bravissimi, credibili. Con la loro recitazione straordinaria hanno dato verità a quanto accade sullo schermo: Valerio Mastrandrea è calato perfettamente nella sua parte, così lontana dai personaggi ironici che spesso interpreta, così differente dall’immaginario che abbiamo su di lui come persona.

Mastrandrea riesce con naturalezza a essere un uomo inqualificabile, non puoi amarlo né giustificarlo in alcun modo e credo che, con il suo indubitabile talento di attore, abbia reso esattamente quello che Paola Cortellesi gli chiedeva di fare: raffigurare il piccolo e modesto Orco delle nostre case, delle nostre vite, che dispensa violenza e con la sua sola presenza avvelena gli animi e fa male al corpo delle donne, troppe volte ancora oggi, in modo letale. La co-protagonista Emanuela Fanelli, anche lei premiata con un meritatissimo David di Donatello come migliore attrice non protagonista, è un’altra figura importante del film: rappresenta l’amicizia tra donne, lo sguardo addolorato di una donna che ha un uomo che ama riamata, un destino modesto ma felice, così diverso da quello di Delia. E di contorno altre donne, rassegnate a convivere con la dolorosa consapevolezza delle ingiustizie che la società infligge loro, vittime di un fatalismo a volte rancoroso, donne che si “odiano” tra loro (le scene che si svolgono in cortile ne sono un esempio), che subiscono un destino che ancora non pensano di poter modificare.

Altra grande intuizione di Paola Cortellesi, nel suo esordire alla regia, è stato l’uso di un bianco e nero, che non scade nel richiamo neorealistico, ma viene utilizzato in modo contemporaneo: il B/N è narrativo, quasi freddo: non è stato scelto, a mio parere, solo perché gli avvenimenti risalgono al 1946, che noi “immaginiamo” in bianco e nero, ma in quanto si deve essere resa conto, Paola Cortellesi, (e questo si può notare vedendo i provini) che il colore avrebbe dato una tridimensionalità fisica al film, un senso di contemporaneità, che avrebbe distolto l’attenzione dai personaggi e dagli eventi.

È la vicenda che coinvolge senza bisogno di colori, il ritmo narrativo, che viene anche sottolineato da un’ottima scelta delle musiche: le canzoni, molto “azzeccate” e a volte inaspettate, scelte da Paola Cortellesi si alternano alla mancanza di musica, che costituisce quasi un silenzio “dietro le quinte”: parlano i fatti, parlano le persone, quando non c’è bisogno di sottolineare o commentare con le note.

Si tratta, senza dubbio, di un film poetico, ma anche – in senso lato – politico, storico, in cui Cortellesi ha voluto raccontare e mostrare le cose come si sono svolte veramente, la storia comune che si intreccia ai grandi e tragici avvenimenti della Storia: la guerra appena finita, la fame, la povertà del dopoguerra, l’arrangiarsi affannato, la svolta. Il film ha anche dei tratti di leggerezza, ci strappa qualche sorriso quando avvenimenti tragici vengono trattati con una comicità un po’ rischiosa, quasi surrealista: l’effetto, sul momento, è straniante, ma poi capisci che va bene così, è la cifra di Paola Cortellesi.

Quando il film arriva alle sue fasi conclusive, Paola Cortellesi crea nello spettatore un senso di ansia, di dubbio e di attesa di vedere cosa sta per succedere: dove sta andando – trafelata – Delia, perché si è vestita in quel modo.

Ma non voglio spoilerare il finale a sorpresa del film per quelli che non lo hanno ancora visto. Posso solo dire la mia opinione: non si tratta di un finale “ideologico” per dimostrare una tesi, ma il racconto emozionato di un momento importante della storia del Paese, che finalmente ha dato voce alla metà del cielo. 

C’è ancora un domani ha scatenato reazioni di diverso tipo nel pubblico maschile: qualcuno ha ritenuto che i personaggi maschili, per lo più negativi, limitati e infarciti di una mentalità ottusa e violenta, non rappresentino la realtà dell’universo maschile. Non siamo tutti violenti, ottusi, burattini nelle mani delle donne (in questo caso ci si riferisce al soldato americano), hanno detto: insomma, qualcuno si è offeso. Altri hanno criticato l’uso del bianco e nero: il mondo non è in bianco e nero e noi non siamo solo nero e voi donne siete solo bianco (questo “noi” e “voi” la dice lunga…). Come mai tutte le donne del film sono positive, anche le comari di quartiere, e noi uomini, invece, siamo o dei burattini nelle vostre mani (mah…) o uomini violenti o pronti a commettere violenza e a sopraffare le donne? Non è così. Occorre considerare che il film rappresenta una realtà, che – per fortuna – ci siamo lasciati alle spalle (ma non del tutto), che le nostre madri e nonne vivevano per lo più così e che la gran parte di loro ha dovuto subire, senza poter fare molto. Perché – semplicemente – le donne non avevano diritti ed erano considerate e trattate come fattrici (di bambini), nutrici (dell’intera famiglia) e, anche quando lavoravano (per lo più costrette dal bisogno, poche erano quelle che avevano la libertà di farlo per scelta o passione), “lasciavano giù” i guadagni in famiglia, magari facendoci la cresta. Gli uomini, a loro volta, erano infarciti della mentalità dell’epoca, solo quelli dal cuore più sensibile si astenevano dal trattare male le donne, soprattutto in famiglia, e per trattare male non si intende solo la violenza fisica, ma l’indifferenza, la condiscendenza, la disistima, l’anaffettività.

È questo che Cortellesi ha voluto rappresentare e nella rappresentazione, che non può che essere parziale, qualche “forzatura” forse c’è. Oppure no? Potremmo discutere per ore di questi argomenti: ma il fatto che alcuni uomini si siano offesi è singolare. Invece di offendersi, potrebbero rendersi conto che, se si liberassero degli stereotipi sui ruoli uomo/donna, che ancora sopravvivono, spesso sottotraccia, e superassero comportamenti, che ancora “inquinano” le nostre vite (anche le loro), forse faremmo un ulteriore e importante passo avanti, insieme.