La prima volta che ho incontrato la scrittura di Rossella Scherl è stato durante un incontro di prova del primo corso online di scrittura creativa de “Lalineascritta” di Antonella Cilento, ormai undici anni fa.
Nell’ultima parte dell’incontro, Antonella propose un esercizio di scrittura libera e, al termine di dieci, quindici minuti, Rossella lesse il suo. Ricordo di essere rimasta fulminata dalla sua scrittura: ricca, fluida, musicale. E di aver pensato che fosse di un altro livello; già piena e matura. In poco tempo, Rossella aveva dato forma a immagini nitide e penetranti: c’erano le memorie di un parto, i ricordi del corpo, una lingua in equilibrio tra paura ed emozione, la separazione da una vita altra che si dischiude; la luce del distacco.
Anche il nuovo romanzo di Rossella, Pepi l’americano (Rubbettino 2022), inizia con un parto: il 4 giugno 1887 nasce, da Maria che ingoia lacrime e si pente e si duole, Giuseppe Massimiliano, detto Pepi, figlio di un amore illegittimo e sfortunato – figlio di tutti e di nessuno. Pepi muove i primi passi su un terreno accidentato: una madre silente bambina, che trattiene parole e amore e viene risucchiata da un matrimonio riparatore in cui lui non avrà mai modo di venire accolto, una nonna dura – Mattea – che riversa su di lui amarezze e frustrazioni, un paese natale, Fianona (attualmente in Croazia), destinato a essere rimestato dalla storia del Novecento. Un territorio di confine, abitato da lingue diverse (serbo-croato, italiano, sloveno, tedesco – a turno usate per imporre un regime, a turno impedite e perseguitate), che verrà conteso, conquistato, occupato, svuotato, popolato, ceduto o riconquistato. Oggi, sulla penisola istriana, si affacciano l’Italia (per un soffio), la Slovenia e la Croazia (Schengen e non Schengen, euro e kune; tutte le nostre varietà umane ancora allineate a marcare le diversità anziché le comunanze). Fianona, come molti centri abitati, è teatro di grandi trasformazioni: all’inizio del Novecento, sotto l’impero austroungarico, contava oltre 5000 abitanti, mentre ora pare ne conti solo poco più di 300.
Pepi, dunque, è il figlio simbolo di una terra inquieta: una madre che non riesce a fargli da madre, un padre morto ancora prima che nascesse, una penisola che non potrà accoglierlo a lungo: né in gioventù, quando scalpita per diventare indipendente e vuole crescere, crescere per sfuggire all’impotenza, alla povertà, al disamore della madre e alle severità brutali della nonna, né in tarda età, ormai appagato e benestante e già illuminato da una luce interna che riverbera sui volti di moglie e figli.
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L’autrice del romanzo Rossella Scherl con il padre Silvano
La storia di Pepi è una storia di confini e di spostamenti. La sua lingua è attraversata dal dialetto istroveneto, che pulsa come una radice di latte e, al contempo, reca le tracce di un dolore che si rinnoverà: il rifiuto alla nascita e la cacciata in età più che adulta. Quando Pepi lascia Fianona e l’Istria è poco più che un bambino: ha quindici anni e s’imbarca, supportato da Nane – unica figura paterna – che lo aveva cresciuto sul suo trabàccolo che trasportava e vendeva merci tra gli scali di Trieste e Fiume, come “camaroto”, ovvero come garzone di bordo o mozzo, in un piroscafo il cui nostromo è Gàsparo, parente di Nane. Dopo due anni nel Mediterraneo, il piroscafo farà la prima traversata oceanica, dirigendosi verso il Sud America. A Buenos Aires Pepi, ancora scosso da una burrasca in cui ha rischiato la vita, decide di sbarcare: in un ristorante trova lavoro come cameriere di sala e poi cuoco. Qualcosa, tuttavia, lo spinge sempre altrove e così si ritrova imbarcato per raggiungere un faro isolatissimo, nella penisola Valdés, in Patagonia, dove farà il cuoco.
La parte dedicata alla vita al faro è forse quella che più mi è rimasta impressa: per le descrizioni magistrali di Rossella e perché lì si consuma l’apice della solitudine dell’esilio di Pepi. Circondato da una natura bellissima e ostile, che lo attira a sé con il verso di una civetta e il suono del vento che anima la steppa desertica – una melodia in cui si confondono il richiamo vago di casa e i pensieri più intimi, trasformati in sogno, seduzione e morte (o rinascita) come nel canto delle sirene a Ulisse –, troverà la forza di scegliere il proprio futuro, di non scappare. Attraverso le parole di Mico, compagno calabro: «“Pepi, senti a mmia, dassa stare ‘u destino”. Cambiando tono aggiunse: Guardami! Ubbidii. “‘U destino non esiste”. Girò le mani e mostrò i palmi pieni di calli”».
La decisione di fare i conti con il passato e rientrare a Fianona con le spalle larghe, soldi messi da parte, sicurezza e dignità, verrà però ostacolata, ancora una volta, dalla storia. La prima guerra mondiale, il lungo sequestro della nave da carico su cui era imbarcato, a Vigo, in Spagna; la volontà, alla fine della guerra, di non rischiare il rientro a Fianona prima che le questioni territoriali fossero state definite, lo riporteranno a New York. Il Trattato di Rapallo del 1920 gli viene annunciato dai giornali: Pepi cambierà cittadinanza tramite Consolato. La potenza dello sguardo di Rossella è tutto in questo scambio asciutto di frasi che rendono la fragilità della sua identità (un foglio che vibra al vento – e non è forse quella di tutti noi?) e, al tempo stesso, riaffermano l’impossibilità di uno sradicamento da sé più profondo.
La cittadinanza, la lingua, la religione, come accidenti della storia. Tutti motivi ipocriti di presunte diversità.
Non parlerò dell’ultima parte del romanzo: è un romanzo bellissimo, che va letto. La maturità di Pepi si stempererà nella fine dell’esilio oppure, come in un frattale, ogni parte replica il tutto e l’esilio, a scale diverse, con tonalità diverse, torna e tornerà ad alimentare, forse arricchendoli, il suo sguardo e il suo respiro?
Il faro è, per me, il cuore dell’universalità della sua storia: ognuno di noi, arrivato alla steppa desertica, nella solitudine più estrema, nel silenzio attraversato solo dal verso di una civetta, può sentire di quale materia è fatto, mettere a fuoco quali destinazioni vorrà provare a raggiungere. E mentre il caso e gli eventi ci avvolgeranno e ci trascineranno nelle onde di un oceano che s’ingrossa sotto ai tuoni assordanti, avremo la bocca forse piena di acqua e sale, ma in tasca qualcosa che potremo chiamare casa, che sia un sasso della terra natale, una fotografia, una lettera o un pugno stretto di ricordi. Qualcuno di noi non ce la farà. A quelli che restano, a quelli che sopravvivono, il compito di raccogliere il testimone.
Il romanzo di Rossella Scherl è frutto di anni di lavoro e di studio; la storia di Pepi è anche, ma non solo, perché la scrittura potente e bellissima di Rossella è fertile d’invenzione, la storia di suo nonno e la storia di suo padre Silvano, figlio di Pepi, il cui ostinato “legittimo contendere” – ovvero la richiesta di risarcimento dei beni confiscati agli italiani istriani – è, come lei scrive nei ringraziamenti, motore stesso del romanzo.
Ludovica Cotta Ramusino, docente di matematica
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La professoressa Ludovica Cotta Ramusino, autrice della recensione