di Giulia Perri*

Nacque in primavera, a Careri, in Calabria, il futuro Frate Diego.

Elisabetta e Giulio Giurati, genitori felicissimi, chiamarono il loro bimbo Leonardo, quel martedì 5 aprile 1606. Elisabetta, che aveva portato in grembo il suo quinto figlio quasi fosse una piuma, di lui diceva estasiata “le anime innocenti sono alati serafini senza peso alcuno” senza sapere che la leggerezza sarebbe stato il tratto dell’arte di quel suo figlio speciale.

Crebbe amatissimo da tutti, Leonardo, parlava raramente e quando gli adulti lo interrogavano li guardava negli occhi, dicendo: “chi tace sa ben parlare”, lasciandoli stupiti e un poco inquietati da quel piccolo che sembrava troppo maturo per la sua età e che ti leggeva l’anima. Ma Leonardo era serio, con un tratto di dolcezza che non giudicava.

Lieve nell’animo e grave nella sua serietà, si accostò fin da piccolissimo alla fede, fino a quando all’età di quattrodici anni perse il padre. La madre si preoccupò che quel figlio, che le pareva tanto sensibile, schiantasse per quel primo dolore, così inaspettato. Si stupì quando si accorse che Leonardo avesse trovato in sé ragioni superiori per un distacco sereno dal padre, dopo averlo salutato amorevolmente per l’ultima volta. Elisabetta sgomenta vide il figlio, durante la cerimonia funebre, inginocchiato in un angolo a pregare. Non una lacrima. Leonardo si chiuse in un quieto tacere, pregando sentendo sempre più forte il richiamo verso la vita religiosa.

A vent’anni entrò nel Convento dei Riformati francescani a Bovalino, scegliendo come nome quello del primo santo laico della storia del cristianesimo, Diego. Frate Diego da Careri.

Si distaccò dagli affetti terreni, quasi all’improvviso. Elisabetta cercò di farlo tornare a casa andando fino al convento in carrozza, ansiosa. Lui la salutò con fermezza e dolcezza e le disse che non si sarebbero visti più e la accomiatò.

Diego viveva di fede e di duro lavoro, amava tutti ma nessuno in particolare, la famiglia si stagliava nel suo cuore, in lontananza, importante come gli altri. Nessun rimpianto. Si dedicò lieto alle attività manuali con i suoi confratelli, trovando in quella dimensione la propria. Un giorno si trovò tra le mani uno scalpello e un ciocco di legno. Iniziò a intagliare, levigare, poi colorò. I superiori si accorsero del suo talento e lo mandarono alla Scuola di scultura di Catanzaro. Diego, poi, viaggiò attraverso la Calabria, probabile che abbia ammirato nel suo peregrinare le opere di Antonello Gagini, dai tratti dolcemente rinascimentali, che si confacevano alla sua anima più delle torbide rappresentazioni spagnoleggianti in voga a quell’epoca. Già presentiva un alito barocco, che trasferiva nel suo tocco lieve e nella letizia che traspare dalle sue opere. Perfino i suoi cristi morenti, non sono tragici ma compostamente dolorosi e inducono alla riflessione, senza suscitare l’orrore per il fine vita.

Obbedì quando i superiori gli comandarono di andare per qualche tempo al Convento di Santa Maria degli Angeli a Badolato. Vi giunse a piedi, su per strade sterrate e polverose. Ad un tratto svoltò e vide alla sua sinistra la splendida Badolato che si ergeva sulla cima di un’ardita altura. A destra trovò la strada, ripida e accaldata, che portava al Convento, splendido e immerso nel verde, che lì il sole colpiva con minor forza. La bellezza e la serenità dei luoghi gli ispirarono splendenti e colorate madonne con i putti, che le si affacciano gioiosi intorno, e un crocefisso, un cristo serenamente rassegnato alla sua dolente missione.

La sua fama si diffuse di convento in convento, di borgo in borgo, fino a giungere alla capitale del Regno, alle raffinate orecchie del Viceré di Napoli, che lo mandò a chiamare e lo volle alloggiato presso il Palazzo reale. Da lì, tutti i giorni, Diego, percorreva le affollate strade della città fino alla Chiesa di Santa Maria alle Croci, dove realizzò uno splendido armadio con ante finemente decorate, che una volta aperte, dischiudevano sulla meraviglia delle nicchie portareliquie. Ogni santo raffigurato con una identità precisa e raffinata.

Fu chiamato al nord dove visitò le più importanti via crucis, sorte come baluardo prealpino al protestantesimo d’oltre confine, ammirandone le figure e le narrazioni. Prese ispirazione da quelle per scolpire, nella parte più lontana del Lago di Como, nel Convento francescano di Dongo, una Ultima Cena a grandezza naturale, di cui colpisce l’espressività e l’umanità dei sentimenti. Dall’altra parte della navata rappresentò Cristo con i due ladroni e una luce irradia di spirito il compimento della missione di Gesù.

Diego invecchiava e a fatica accolse l’invito dei francescani di Sambuca in Sicilia di raggiungerli. Volle accontentarli e si sobbarcò il lungo viaggio da Nord a Sud, passando anche da Tropea, dove rimane a ricordarlo un Sant’Antonio di grande bellezza. A Sambuca scolpì con le ultime forze, portò consolazione a tutti coloro che lo conobbero e morì in odore di santità, il 16 agosto 1661. Qualcuno giurò di avere sentito il profumo della sua altezza spirituale, un odore di mandorle dolci, altri parlarono del profumo di un giglio solitario.

Sant’Antonio, Fra Diego (foto Giulia Perri)

 

Busto porta reliquie, Frate Diego da Careri (Foto Eleonora Angeloni)

 

*Giulia Perri è autrice del saggio Francesco Perri – Un repubblicano per la libertà (Rubbettino, 2008) e Il saio e lo scalpello. Vita e opere di Frate Diego da Careri (Laruffa, 2009)

Immagine di copertina: Ultima cena, Giuda, Fra Diego (Dongo), foto di Claudio Vancini

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