Di Michele Papalia – Roberto Bolaño, cileno di nascita e d’infanzia, messicano d’adozione, spagnolo in punto di morte. Roberto Bolaño se volete smarrirvi per non ritrovarvi più.
In una labirintica Città del Messico e in una divisione tripartita dell’opera – Messicani perduti in Messico (1975), I detective selvaggi (1976-1996), I deserti del Sonora (1976) – Arturo Belano e Ulises Lima sono due giovani poeti squattrinati alla ricerca dell’oro più prezioso: delimitare il perimetro della propria esistenza con il bastone della poesia. Continui capitomboli di una gioventù guidata dal disordine e dagli ormoni alla disperata ricerca di Cesarea Tinarejo, fondatrice e guida del “realvisceralismo”, fantomatico movimento poetico d’avanguardia.
Garcio Madero, di professione poeta, sembra da subito il protagonista, ma altro non è che una delle voci che prenderanno parola lungo il viaggio di Belano e Lima, i due detective selvaggi in questo romanzo dalla struttura complessa, più forme più voci. Le storie dei personaggi si dipanano in sotto-trame zigzaganti, in contesti in cui gli stessi appaiono spesso privi di un costrutto quadro psicologico, apparentemente incompleti e gettati nei deliri dell’autore, le tracce sparse catalogate dai due segugi Lima e Belano – essi non prenderanno mai parola nell’opera, eppure la loro indagine sarà svelata da conoscenti e amici, a ognuno il suo stile, incontrati su rotte perpendicolari – per giungere a Cesarea Tinarejo, donna quasi utopica, dea depositaria della corrente letteraria del “realismo viscerale”.
In sottofondo serpeggia l’astio dell’autore verso la società culturale messicana, quella ufficiale, lontana dai gironi del randagismo poetico a cui Bolaño è sempre appartenuto al pari dei due detective. E poi la domanda che da secoli fa girare una delle ruote motrici della letteratura: «…il crimine è casuale o è causale?». La risposta la troverete – forse – nelle 688 pagine di narrazione ironicamente disperata e comica.
Un’avvertenza: leggere I Detective Selvaggi è decidere di non leggere più niente altro che non sia Bolaño, bramare il suo stile e il suo apparente caos, invidiare Bolaño sebbene morto a cinquantatré anni, malato al fegato, l’età dello scrittore che potrebbe corrispondere a quella del centravanti che nella sua stagione più prolifica vede interrotta la carriera. Il debito che Bolaño paga, quanto meno sul piano della costruzione e conseguente frammentazione della trama, transita sul conto di Julio Cortazar – incassando, di contro, Bolaño con gli interessi.
La letteratura latinoamericana, aggettivo qualificante solo se ci si siede sulle comode ma convenzionali seggiole delle classificazioni geografiche e di genere, ergo la letteratura, è Jorge Borjes, Ricardo Piglia, Garcia Marquez, Julio Cortazar, e pure tale Roberto Bolaño, gaucho insopportabile. Ho saputo di detenuti innocenti che, in attesa di giudizio, dopo aver letto I Detective Selvaggi si sono dichiarati pronti a scontare la loro condanna.
(Michele Papalia, avvocato, è autore del romanzo Caci il brigante)