Londra, inizio ‘900. Lucy Muir (Gene Tierney), ad un anno dalla morte del marito Edwin, intende lasciare l’abitazione dove finora ha vissuto insieme alla suocera Angelica (Isobel Elsom) e alla cognata Eva (Victoria Horne), le quali esternano la loro disapprovazione al riguardo, fra sgomento e recriminazioni. L’affascinante signora, che può fare affidamento sulla rendita derivante dalla proprietà di una miniera d’oro, è fermamente intenzionata a coronare un suo vecchio sogno, abitare in un villino sul mare: si trasferisce quindi, insieme alla figlia di otto anni, Anna (Natalie Wood) e alla governante Martha (Edna Best), nel villaggio costiero di Whitecliff. Qui, fra le tante proposte dell’agente immobiliare, i suoi occhi si posano su Gull Cottage, nonostante le venga rivelato come la dimora sia infestata dallo spettro dell’originario proprietario, un uomo di mare, il capitano Daniel Gregg (Rex Harrison), il quale non tarderà a rendere palese la propria presenza, anche se alla fine non potrà far altro che constatare l’irremovibilità della signora Muir, per nulla terrorizzata, contrariamente ai precedenti affittuari, tre, che se la filarono subitamente a gambe levate. Rude e sprezzante, colorito nell’eloquio, ma fondamentalmente premuroso e gentile, il capitano entrerà in confidenza con l’amabile Lucy, tanto da rivelarle la verità sulla sua dipartita, dovuta ad un banale incidente domestico e non certo al suicidio come si chiacchiera in paese, oltre alle originarie intenzioni di rendere la villa, costruita con le sue mani, un pensionato per marinai.

Gene Tierney e Rex Harrison (Normal Theater)

Una volta che la miniera non darà più dividendi, il nostro non esiterà poi ad offrire ectoplasmatica collaborazione nello scacciare di casa le redivive Angelica ed Eva, avvoltoi in veste di dame di carità, e a far sì che Lucy possa scrivere un libro sotto sua dettatura, memorie della vita in mare, così da farlo pubblicare e ricavarne profitto. La “corrispondenza d’amorosi sensi”, espressa in forma spirituale, è certo “cosa buona e giusta”, ma in un rapporto di coppia anche la corporalità ha la sua importanza espressiva, così come è egualmente rilevante il relazionarsi col mondo esterno, per quanto quest’ultimo sia ancora vincolato a rigidi parametri comportamentali: quando Lucy proporrà con successo, dopo varie diffidenze, il suo libro all’editore  e conoscerà il galante scrittore Miles Fairley (George Sanders) accettandone la corte, Daniel non esiterà a mettersi da parte, facendo sì che la donna creda null’altro che un sogno quanto accaduto fra di loro. Ma il vero amore sa attendere, sfidando le barriere del tempo per conclamarsi nell’ambito di una sospirata eternità … Sceneggiato da  Philip Dunne, sulla base dell’omonimo romanzo scritto da  Josephine Lestlie nel 1945 (con lo pseudonimo di RA Dick), e diretto da Joseph L.Mankiewicz, regista piuttosto poliedrico nell’abbracciare diversi generi cinematografici, conferendo loro compiuta caratterizzazione autoriale fra teatralità della messa in scena ed esaltazione dei dialoghi ponendo attenzione alle interpretazioni attoriali, The Ghost and Mrs. Muir si palesa ancora oggi alla visione come un film tanto semplice nella linearità espositiva quanto ricercato in ogni aspetto della sua impostazione complessiva.

George Sanders e Tierney (IMDb)

Può definirsi come una fiaba gotica, incline ad abbracciare sia il fantastico sia il melodramma, contornata da una sapida atmosfera romantica, esaltata nella resa visiva dalla abbacinante fotografia in bianco nero di Charles Lang ed attraversata da un felice motivo sonoro (Bernard Herrmann); personalmente ne ho sempre ammirato l’elegante sospensione fra la concretezza del reale, scogliera sulla quale si infrangono i marosi dell’ordinarietà quotidiana, e la levità diafana dell’ultraterreno, “dimensione altra” incline a conferire consoni significati al giornaliero tribolare. Il ruvido capitano interpretato con misura ed eleganza da Harrison, e la candida ma determinata fanciulla resa con naturale stupore e trasporto disincantato dalla bellissima Gene Tierney, sono due esseri affini pur nella loro diversità d’approccio alla vita: l’uno spirito guascone improntato ad una spavalda ed irruenta libertà, l’altra costretta a soffocare i propri aneliti d’indipendenza, delimitati da irreggimentate convenzioni sociali, un matrimonio  forse più atto dovuto che coronamento di un convinto trasporto amoroso, mentre il sincero abbandono passionale verso l’apparentemente garbato Fairley, andrà a scontrarsi con la realtà di un mellifluo inganno, ancora una volta all’insegna delle buone convenzioni borghesi. Fantasia, realtà, raziocinio e sentimento si rincorrono fra di loro all’interno di una plausibile, drammatica, concretezza: l’arguzia espressa congiuntamente da scrittura e regia riesce non solo a conferire una suggestiva credibilità logica all’andamento narrativo, ma anche a delineare un simbiotico rapporto emotivo col personaggio di Lucy Muir, felicemente reso, riprendendo quanto su scritto, da Gene Tierney.

E’ lei infatti a conferire credibilità ad ogni singolo evento, grazie ad una naturale mescolanza d’ironico distacco, malinconia e profondo senso di solitudine, che la pone coerentemente fuori dal tempo nel suo modo di relazionarsi col prossimo ed assecondare il succedersi delle stagioni, accettando ogni variazione sul tema, volente o nolente. La regia di Mankiewicz da parte sua riesce ad offrire una densa corporeità a quanto va a visualizzarsi sullo schermo, in primo luogo rendendo il Gull Cottage ulteriore protagonista. Mirabile al riguardo la sequenza in cui vediamo Lucy entrare raggiante per la prima volta nella magione, insieme al pavido agente immobiliare: l’inquadratura, dal basso verso l’alto, della scala che porta al piano superiore crea una sorta di vertigine condivisa, andando dunque a stagliare una linea di collegamento visuale fra i due universi che andranno di lì a poco a confluire fra di loro, in un ammaliante gioco a rimpiattino fra ciò che è concreto e quanto è invece, apparentemente, etereo, considerando quanto quest’ultimo apporterà nelle vesti di un rinnovato aprirsi alla vita. La suddetta confluenza rende comunque evidente una netta demarcazione fra l’esistenza che ci si ritrova a gestire e quella intimamente anelata, la quale può essere percepita una volta lambite le sponde del sogno o, meglio, di più sogni, perché in questa moltitudine, citando Le mille e una notte, risiede la verità. Finale sublime ad avviso di chi scrive: la citata fotografia di Charles Lang esalta una sfavillante luminosità, intesa a circoscrivere metaforicamente un’aura di sano romanticismo, lontano da melensaggini; si può attendere per un’eternità il vero amore e nell’eternità conclamarlo nella sua purezza: “D’ora innanzi non sarai stanca mai più, vieni, Lucy…”.

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(Duck Comics Revue)

Dal film venne tratta una serie televisiva dall’identico titolo (in Italia nota come La signora e il fantasma), due stagioni dal 1968 al 1970 per 50 episodi, ambientata però nell’America coeva al periodo di realizzazione, interpreti principali Hope Lange (Carolyne Muir) ed Edward Mulhare (Daniel Gregg). Il disegnatore Don Rosa in  The Life and Times of $crooge McDuck, nota saga a fumetti su vita e dollari del papero più ricco del mondo, a noi noto come Paperon De’ Paperoni (12 capitoli per altrettanti albi, pubblicati originariamente, dal 1992 al 1994, in Danimarca dalla Egmont sulla testata Anders And & Co), ha citato la sequenza finale nel nono capitolo, The Billionaire of Dismal Downs  (Il miliardario di Colle Fosco, Zio Paperone n.78, marzo 1996).