di Jacopo Giuca Con il ritorno in TV de “L’amica geniale” abbiamo voluto proporre anche a voi alcuni dei mille spunti di riflessione contenuti nell’intera opera di Elena Ferrante, con la speranza di stimolarvi alla lettura di quattro libri destinati a diventare un caposaldo della letteratura italiana.

Torna questa sera, su Rai 1, “L’amica geniale”, l’adattamento del mastodontico romanzo di formazione scritto da Elena Ferrante e pubblicato a cavallo tra il 2011 e il 2014 da E/O. La seconda stagione, prodotta una volta di più Wildside e Fandango con Umedia per Rai Fiction, HBO e TIMvision, sarà l’adattamento del secondo volume della serie, “Storia del nuovo cognome”, e ci racconterà la giovinezza delle due protagoniste Elena Greco e Raffaella Cerullo. Ma prima ancora che essere una serie televisiva di successo, come noto, “L’amica geniale” è una quadrilogia di romanzi di formazione straordinaria che, grazie alla narrazione vivace e commovente dell’autrice, contengono un’incredibile epopea meridionalista destinata a divenire un immortale classico della letteratura italiana.

Il primo romanzo del ciclo si rivela fin dalle prime pagine geniale quanto l’amica che dà il titolo al libro.
La storia di Lila e Lenù, due amiche della periferia napoletana che crescono a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, avvolge il lettore in un turbinio di emozioni che rivaleggia con il miglior verismo, dando la sensazione palpabile di trovarsi dinanzi a un classico moderno che meriterebbe l’inserimento nei programmi di letteratura italiana a scuola. Lucida come Verga e intimista come Svevo, la Ferrante segue la crescita delle due bambine dal punto di vista di Lenù, mescolando abilmente storia ed emozione, facendo parlare anche il non detto, tratteggiando immediatamente un’ampia rosa di personaggi genuini nella loro semplicità, perfettamente riconoscibili pur non risultando mai stereotipati.
Ne viene fuori la descrizione lucida e soggettivamente onesta di una Napoli quotidiana crudele e talvolta violenta, di una società italiana in crescita economica in cui il rapido cambio della situazione sociale va di pari passo con la crescita scoordinata e troppo veloce delle due protagoniste, in cui personaggi antitetici risultano di una complementarietà tanto perfetta da comporre con sorprendente e poetica dovizia di particolari un mosaico straordinario, che lascerà un segno indelebile nelle menti di chiunque voglia approcciarsi a queste straordinarie 330 pagine.

“Storia del nuovo cognome” inizia dunque esattamente da dove “L’amica geniale” si era interrotto. Ma se Elena Ferrante, nella prima parte della sua magnum opus ci aveva abituato a una narrazione frammentaria, che voleva rendere l’idea dell’opacità dei ricordi di bambina della narratrice Lenù per andarsi a comporre con animosa bellezza solo con l’arrivo della fase dedicata all’adolescenza, la storia racchiusa in questo volume si configura come una narrazione dei sentimenti, che procede a velocità differenti cavalcando attraverso la tremenda fase di transizione tra la giovinezza e l’età adulta.
Il blocco centrale del libro, il più poetico e drammatico, è interamente dedicato a un’estate che trasformerà in maniera irreversibile la vita e l’amicizia delle protagoniste Elena e Lila, aprendo una parentesi, più rapida nella narrazione dei fatti, ma più pesante per la drammaticità che ne trasuda, che ci accompagnerà con dolore verso la conclusione del libro.
Chi ha amato la narrazione della Ferrante nel suo predecessore non potrà che rimanere una volta di più estasiato da “Storia del nuovo cognome”, che attraversa con naturalezza gli anni ’60 (ri)modellando i comprimari che abbiamo imparato a conoscere nel primo volume e introducendo con eccezionale semplicità personaggi nuovi.
Una prosa vorticosa che ci cattura dalla prima all’ultima pagina, facendoci desiderare di approdare alla conclusione del libro pur sapendo che la sua chiusura rappresenterà un soddisfatto dolore.

Il mondo fatato della giovinezza, che pure ci aveva già abituato ad alcune delle mille brutture di una società povera e imperfetta, è ormai un ricordo lontano quando iniziamo la lettura di “Storia di chi fugge e di chi resta”. Il fortunoso avvio della vita professionale di Elena, sotto questo punto di vista, è lo spartiacque perfetto nella vita della protagonista e, conseguentemente, nella narrazione della Ferrante. In questo senso, il volume che abbiamo tra le mani diventa immediatamente il capitolo più adulto della saga, quello in cui le tante illusioni della vita si scontrano rapidamente con la sua crudeltà violenta, con la cattiveria di una lotta di classe in cui, in maniera diversa, le due protagoniste rimarranno coinvolte. Pur in modo diverso, infatti, Lila ed Elena non si limiteranno a subire passivamente i cambiamenti imputati dal ‘68 e dagli anni di piombo, scenografia perfetta di un romanzo che più dei precedenti si rivela essere “di formazione”.
La Ferrante si dimostra infatti una volta di più perfetta conoscitrice della storia contemporanea del nostro Paese ma, allo stesso tempo, non sfrutta la Storia come pretesto per fare prendere una piega artificiale alla sua narrazione, che procede invece in maniera naturale, complice la perfetta costruzione scenica realizzata nei primi due romanzi e che solo qui si mostra nella sua deflagrante efficacia.
L’amica geniale, qui inteso come concetto portante del primo romanzo, in grado di racchiudere in sé l’essenza di un’amicizia genuina anche se non sempre sincera, è ormai un ricordo lontano: Lenù è assurta prepotentemente a protagonista assoluta, che tuttavia non riesce a scrollarsi di dosso il fantasma onnipresente di Lila, comprimaria così ingombrante da influenzare direttamente o indirettamente ogni sua azione. E, mentre realizziamo la portata di questa influenza, scopriamo al contempo un’Elena fragile, che non riesce a trovare soddisfazione nemmeno nella realizzazione professionale e famigliare che, nel tentativo di emulare anche gli errori di Lila, si lascia risucchiare in un vortice che, già lo sappiamo, ne cambierà irrimediabilmente la vita. Una sensazione così forte da farci divorare le ultime pagine del romanzo con la precisa volontà di approcciare al più presto il capitolo conclusivo di questa saga straordinaria, ansiosi di scoprire la sorte delle due amiche e quanto la spirale autodistruttiva da loro imboccata rispettivamente al termine del precedente romanzo e in questo libro ne abbia condizionato l’esistenza.

Le prime pagine di “Storia della bambina perduta”, dunque, sono tutte dedicate allo stordente cambiamento che Elena ha imposto alla sua vita nella parte conclusiva del romanzo precedente. Il ciclone che cambia la vita della protagonista è l’ennesimo, brillante esempio di narrazione dei sentimenti proposto dalla Ferrante, che piega i fatti alla visione soggettiva dell’io narrante facendoci domandare con maggiore insistenza se ciò a cui stiamo assistendo sia effettivamente la verità o solo una sua interpretazione.
Il tumulto di emozioni e sentimenti che Elena vive in questa fase delicata della propria vita si tramuta pertanto in una narrazione veloce e ricca di rimandi, a tratti frammentaria, esattamente come era avvenuto nelle prime fasi de “L’amica geniale”. Grandi dolori e piccole gioie si susseguono a una rapidità che stordisce il lettore, travolto da una serie di cambiamenti che culminano nel nuovo avvicinamento tra Lenù ed Lina, in un ritorno mal digerito nella Napoli natìa. Tuttavia, quando le cose, tra alti e bassi sembrano prendere una strada più favorevole per entrambe le protagoniste, si giunge alla fase più dolorosa della vita di entrambe, che sfilaccerà irrimediabilmente i rapporti tra le due donne, ormai giunte alla mezza età.
È proprio in questa ultima fase del racconto che la narrazione della Ferrante rallenta, divenendo a tratti meno avvincente e, se vogliamo, più pesante, ma anche più esplicitamente meridionalista. Napoli, fino a quel momento sfondo statico di una vicenda articolatissima, diviene elemento indispensabile allo sviluppo della narrazione, un personaggio aggiunto che, in poche ma efficacissime pagine riesce a dimostrare quali siano le virtù e le miserie di quella parte d’Italia che ha sfiorato lo sviluppo senza riuscire a intercettarlo davvero, che è rimasta troppo a lungo schiacciata dal tacco di una criminalità organizzata che, nascosta sotto l’aria distinta dei vicini di casa, riusciva a mescolarsi tra la gente perbene, a sua volta inconsapevole (o disinteressata) complice delle malefatte che si consumavano sotto i propri occhi.
La fase della vecchiaia, la fase dei distacchi e dei bilanci, quella che l’autrice ci racconta molto rapidamente, risulta pertanto la più densa dell’intera opera, quella dedicata a un’età della consapevolezza che permette ad Elena di unire i punti della sua amicizia con Lila, destinata a rimanere in qualche modo irrisolta, ma non per questo, come si scopre nel commovente finale, meno carica di significati.