La mia creatività è legata a quella terra, a quelle atmosfere peculiari, alle sue contraddizioni. La vita frenetica per strada, in cui s’incrociano jeep ultimo modello, Mercedes sgangherate, asini e calessi, si spegne all’improvviso a una decina di metri di distanza, acquattandosi nel silenzio più assoluto del viottolo di un’oasi o di un’arida distesa puntellata di capre e cespugli di ritem.
La bellezza sconvolgente dei luoghi, l’accoglienza istintiva e senza filtri, l’intreccio di miseria, dolore e speranze. È un universo palpitante di vita quello che attraversa i racconti di Giorgio Gigliotti dal mondo arabo. Una “visione” totale, reale e immaginifica al tempo stesso, tra proiezioni ideali e vita vissuta. Racconti poetici e crudi, come quel mondo. Come i mondi “a Sud” nelle loro similitudini. Giorgio Gigliotti narra, tra parole e scatti fotografici, con immagini vivide in cui ritrovarsi e perdersi al tempo stesso. Attratti dal calore e annichiliti dall’orrore. Hotel Allah (Coniglio, 2008) e Pane e Allah (Ponte Sisto, 2018), come preziose tessere di un mosaico multicolore, ricompongono l’affresco umano, storico e sociale di un’area poco conosciuta, ingabbiata da antichi e moderni stereotipi.
Ne parliamo con l’autore, Giorgio Gigliotti, giornalista e scrittore; nato in Calabria, oggi vive a Roma, la Tunisia è la sua seconda casa.
Il mondo arabo, di cui tu scrivi con forte e tangibile senso di “appartenenza”, cosa rappresenta per te? Quello che appartiene al nostro immaginario si conserva nell’incanto. Così, prima di conoscere quel mondo, quando ancora giovanissimo iniziai ad andare nei paesi musulmani, vivevo nella fiaba che mi ero costruito. Dalla Tunisia, via via, col tempo, mi spostai per l’Africa del nord e il Medio Oriente. Simile a un pittore orientalista, uno di quelli che, nell’Ottocento, dall’Europa continentale attraversavano il Mediterraneo per perdersi in un mondo affascinante e misterioso. In tanti di quei quadri esposti nei musei, appare un universo statico ed estatico, reale ma solo in apparenza. Le spedizioni napoleoniche in Egitto avevano cambiato la percezione di quei Paesi fino allora sconosciuti. Dopo il primo impatto si entra nel reale. La conoscenza è un’altra cosa. La potrei suddividere in due fasi. La prima è sensoriale, direi quasi fisica. E può durare a lungo. Nel bene e nel male, vedi, senti, tocchi ciò che ti circonda. Sperimentare il quotidiano è come un calcio in faccia se arrivi dai tuoi sogni. In quel mondo non c’è solo gentilezza, ma anche noncuranza e arroganza, dietro un’oasi puoi trovare pure un grande immondezzaio, ti scontri con una cultura che ti appare lontana, differente. La disillusione è dietro l’angolo, a volte dolorosa. Il rischio è molto alto. Poi arriva la seconda fase che è quella più profonda. È il momento in cui distruggi lo stereotipo. Entri nello spirito delle cose e degli uomini. Ecco, questo non ti potrà tradire mai. Il contatto tra anime è sempre una scoperta che arricchisce, che fa crescere. Andare verso l’altro è la cosa più appagante e importante che si possa fare nella vita. Accetti il bello e il brutto. E quando ti appartiene, anche tu diventi di quel mondo. Prendiamo per buona l’idea di “mondo arabo”, sebbene questi non sia un monolite, ogni Paese ha il suo specifico, la sua cultura, la sua idea di religione, la sua impostazione politica e sociale, addirittura la sua lingua. Per me, oggi, il mondo arabo è la mia alternativa di vita, imprescindibile. Nella schizofrenia dei nostri tempi, è la parte creativa che mi appartiene. Il mondo arabo è il mio specchio, è lì che si riflette il mio bisogno di conoscere e di comunicare. E lo faccio attraverso la scrittura. È un ritorno alle mie origini, è la Calabria dei miei avi. Cambiano i rapporti, i ritmi, e diciamolo, riaffiora anche un po’ di quell’immaginario di cui parlavo in precedenza e che avevo da ragazzo. Il sogno è fondamentale per rimanere in equilibrio nell’esistere. Ho vissuto sette anni in un villaggio nel deserto. La convivenza tra spirito e materia mi ha come tramortito. Da un lato gli orizzonti infiniti che aprono lo spirito, dall’altro la dura esistenza in un mondo così forte e refrattario.
Andare verso l’altro è la cosa più appagante e importante che si possa fare nella vita. Accetti il bello e il brutto. E quando ti appartiene, anche tu diventi di quel mondo.
Qual è stato il primo viaggio che hai intrapreso? La prima volta che ho attraversato il mar Mediterraneo ero appena ventenne e sono andato in Tunisia. La mia meta era il deserto. Ero molto emozionato. Era agosto e sull’aliscafo che da Trapani portava a Kelibia, conobbi un ragazzo tunisino che lavorava ad Alcamo e che stava tornando per le vacanze a casa. Gli chiesi se conoscesse un posto in cui dormire prima di partire il mattino successivo per Tozeur. Mi offrì di andare a casa sua. Al porto, la madre e la sorella aspettavano il suo arrivo. Appena mi conobbero, mi portarono con loro. Fui accolto come un figlio. Rimasi ospite per una settimana. Ogni sera cenavamo da uno zio, da una cugina. Mi presentarono a tutta la famiglia. Una festa nella festa. La madre, al mattino, saliva nella camera in cui dormivo coi ragazzi, prendeva i panni sporchi e li lavava. Quando partii si mise a piangere e mi disse che per me sarebbe stata sempre mamma Zohra. La sua figura appare ogni tanto in un racconto. I ricordi, le emozioni affiorano e si sublimano in scrittura. A che ti fa pensare questa storia? A me ricorda la Calabria, quella bella di una volta.
Come nascono i tuoi racconti? Scrivi mentre sei in viaggio o raccogli dopo pensieri, emozioni e ne fai narrazione? L’esperienza sedimenta, si deposita nel fondo e poi riemerge a modo suo, trasformandosi in scrittura. Alcune volte in maniera ben precisa, seguendo un progetto narrativo. Altre volte in un modo del tutto inaspettato. Il racconto mi sorprende e mi dico stupefatto “to’, ma guarda chi si vede”. Altre ancora, la mia mano si smarca dalla testa e se ne va per conto suo. E io la lascio andare. Sembra si trascini in libertà, sembra non rispondere a nessuno e invece è legata strettamente alla parte più profonda del mio inconscio. Inoltre ho bisogno di staccare per un periodo lungo e concentrarmi sul lavoro di scrittura. Non riesco a elaborare e mettere su carta in due ore d’intervallo tra un nugolo d’impegni. Scrivere non è tappare un buco. Correggere il lavoro, anche se richiede molto tempo, è un’altra cosa, e per questa operazione il mio spazio quotidiano può andar bene. Quel che è certo e che ho bisogno di tornare sotto il cielo del Nordafrica, per potere realizzare il mio progetto. La mia creatività è legata a quella terra, a quelle atmosfere peculiari, alle sue contraddizioni. La vita frenetica per strada, in cui s’incrociano jeep ultimo modello, Mercedes sgangherate, asini e calessi, si spegne all’improvviso a una decina di metri di distanza, acquattandosi nel silenzio più assoluto del viottolo di un’oasi o di un’arida distesa puntellata di capre e cespugli di ritem.
Una realtà del tutto sconosciuta ma che si sta facendo strada. Prostituzione e dipendenze, degrado e coercizione nelle grandi metropoli dell’Islam mediterraneo. Istanbul, Il Cairo, Casablanca come Londra, Parigi, New York.
La prossima tappa geografica? E quella narrativa? Ritorno in Tunisia, ci manco da poco più di un mese. La mia seconda casa. A Tozeur, mi rinchiudo per scrivere in albergo, realizzo il mio progetto editoriale. È in cantiere il terzo libro, che concluderà la trilogia sul mondo musulmano. Hotel Allah e Pane e Allah, nato dopo le primavere arabe e che da queste, in parte, ha preso ispirazione. Il mio lavoro narrativo, permetti l’immodestia, contiene un importante plusvalore, far conoscere quel mondo a cui siamo legati da millenni. Navighiamo tra immagini e concetti, banali stereotipi promossi da una truce informazione, leggera, colpevole, ignorante. Infarciti di notizie che mirano a esecrare chi è diverso, in questo caso una cultura con cui dovremo coabitare. Ti immagini un mondo tutto uguale? Purtroppo alimentare la paura genera consenso. Nel prossimo lavoro parlerò di una realtà del tutto sconosciuta ma che si sta facendo strada. Prostituzione e dipendenze, degrado e coercizione nelle grandi metropoli dell’Islam mediterraneo. Istanbul, Il Cairo, Casablanca come Londra, Parigi, New York. Inoltre farò un excursus nella storia dell’era post-coloniale. Abbiamo alimentato spietate dittature, fatto affari coi tiranni che hanno saccheggiato quelle terre, umiliata la sua gente, calpestato gli ideali di libertà e democrazia. E per finire il solito passaggio, mai scontato, nella vita quotidiana. Noi siamo spaventati, abbiamo alzato i muri, pensiamo che la nostra civiltà sia in pericolo imminente, una cultura moribonda assediata dal modello dell’Islam. Eppure ti assicuro che è il contrario. Sono un testimone da quasi quarant’anni e ti dico che la famosa omologazione di cui parlava Pasolini è in atto già da tempo. È la loro civiltà che è stata scardinata. Oggi più che mai, con la rivoluzione digitale, nei villaggi più sperduti, ai margini del mondo, vedi i giovani vestiti come i nostri, con gli stessi desideri, le stesse aspettative. Seduti intorno al tavolo di un bar non parlano, non giocano a ramino come un tempo. Tutti a testa bassa a guardare il cellulare. Una notte quest’estate, ai bordi del palmeto, immaginando di conversare con un amico che purtroppo non c’è più, gli dicevo: oggi i ragazzi del deserto non guardano più il cielo, non conoscono le stelle».
“Correvo a perdifiato tra palme e sicomori, lasciando alle mie spalle il fetore della morte. Il terrore oramai mi possedeva, un mostro che iniziava a divorarmi. L’ansia mi asfissiava, l’istinto mi guidava. I piedi si alzavano dal suolo e ricadevano pesanti sul terreno. Il ritmo cadenzato dei miei passi si confondeva sordido col battito del cuore, con l’umido ansimare dei polmoni, fino a ipnotizzare la coscienza. In quel tragico frangente sembrava che cercassi l’armonia come in un gioco. In questa corsa folle del corpo, dei sensi, della mente i pensieri si bloccarono stridendo. Continuai nella mia fuga, terra terra, sabbia cielo, terra sassi, sassi, alberi cespugli finché non l’ebbi addosso, il suo corpo sopra il mio. Un tonfo e la violenza di quell’urto infransero la fragile illusione che niente fosse vero. L’acciaio del coltello nella carne mi sorprese e il sangue che ne uscì mi fece scivolare nell’attesa. Sospeso, aspettavo senza fiato qualcosa di tremendo. Per un attimo lo vidi, il respiro si spezzò, quell’uomo era mio padre. I miei occhi attraversarono il suo sguardo, perdendosi per sempre in quell’abbraccio”. Iziz fece un balzo e si svegliò in un bagno di sudore. Era ancora piena notte, vide il buio incunearsi da dietro la finestra. Sgomento e oscurità come dentro le pupille spalancate. Provò a connettersi col mondo cercando di capire dov’è che si trovasse. A casa e dentro il letto. (Giorgio Gigliotti – Pane e Allah – Ponte Sisto)
Giorgio Gigliotti ha collaborato con Paese Sera, Il Manifesto, Rinascita, ed è stato direttore responsabile della testata giornalistica online Interactpress. Ha collaborato come inviato per Radio Tre Rai. È autore di nove monografie sui Paesi arabi mediterranei (editi dalla Ue e dal Ministero del Lavoro).
Le foto sono di G. Gigliotti