Di Carmelita Mittoro* 

Il Mediterraneo, per la sua particolare disposizione geografica, ha accolto e cullato, nel corso dei millenni, civiltà splendide ed è, ancora oggi, teatro di vicende troppo spesso dolorose e conflittuali che testimoniano il travaglio umano che continua a esercitarsi sul mare e sulle terre prospicienti. I miti che sono sorti in quest’area hanno affascinato intere generazioni di popoli che si sono succeduti in questa parte del mondo, arricchendo la storia di capitoli immortali nella memoria e nella cultura universale.

Uno dei tanti miti, in cui è presente l’elemento femminile, ha dato origine al nome stesso dell’Europa: infatti Europa, principessa fenicia, figlia di Agenore, re di Tiro, mentre si bagnava insieme alle sue ancelle sulla riva del mare, fu rapita da Zeus, sotto le sembianze di un toro bianco che la trasportò a Creta, dove avvenne poi l’unione dei due. In particolare l’area dello Stretto, geograficamente al centro del Mediterraneo, ha originato il più fitto concentrato di miti che abbiano alimentato l’immaginario collettivo dell’Occidente: Scilla e Cariddi, Polifemo, Colapesce, Morgana… il più famoso dei quali è sicuramente quello che ha per protagonista, ancora una volta, una fanciulla, Persefone o Proserpina, e la dea Demetra, sua madre; mito che ha dato origine a importanti culti nell’area mediterranea e soprattutto, come è noto, a Locri.

La città di Napoli trae la sua origine dal mito della sirena Partenope, suicidatasi sugli scogli dopo che, insieme alle sorelle, non riuscì ad ammaliare Ulisse, come narra Omero nel XII libro dell’Odissea. Si racconta che il corpo della sirena si dissolse trasformandosi nella morfologia del paesaggio partenopeo, divenendo anche la protettrice del luogo. Napoli, infatti, è stata sempre definita una città femmina proprio per il suo adagiarsi placida come una sirena sul mare e la sua storia ha visto un susseguirsi di figure femminili, dalla mitica Partenope alle Matres matutae, alla Sibilla cumana, a tante regine e sante, fino alla meravigliosa Filomena Marturano, creata dal grande Eduardo e assurta a simbolo delle donne napoletane per eccellenza.

Persino un simbolo della salute e della dieta mediterranea è ascrivibile a una dea, Igea appunto, figlia del dio della medicina Esculapio. Essa era la dispensatrice di benessere psico-fisico tramite la dieta e lo stile di vita salutare, principi che sono confluiti nella odierna Dieta mediterranea, proclamata dall’UNESCO patrimonio immateriale dell’Umanità, nella cui definizione è specificato: “Le donne hanno un importante ruolo nel trasmettere la conoscenza della dieta mediterranea, infatti esse salvaguardano le sue tecniche e trasmettono i valori dei suoi elementi alle nuove generazioni”. La dieta, infatti, non è una cosa che si può insegnare come una disciplina, ma si impara soprattutto attraverso l’esperienza e la pratica quotidiana, tramandata appunto dalle madri e dalle nonne con le loro ricette tradizionali a base di ingredienti naturali e salutari.

Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun ha paragonato il Mediterraneo ad una donna, ad una madre. Egli ha scritto, a questo proposito: “Il Mediterraneo è una madre abusiva, che noi amiamo malgrado tutto. Il Mediterraneo è una passione amara che si sopporta grazie all’olio di oliva, ai colori del cielo e delle verdure. Essa ci inebria di sogni pazzi ma necessari. Il Mediterraneo è una maniera di respirare, di ridere, di gioire e di piangere. E poi il Mediterraneo ha un seno abbondante e a noi piace rifugiarci in esso, soprattutto quando il sangue fratricida sgorga a fiotti.”

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Ipazia

Donne mediterranee, dunque, protagoniste, nel bene e nel male, delle travagliate storie dei popoli che si affacciano su questo mare, il “Mare delle donne”. Donne antichissime ma di profonda cultura hanno dato un contributo notevole allo sviluppo del pensiero, capaci di aprire le menti e di non inchinarsi preventivamente a nessun dogma. Ipazia d’Alessandria, scienziata e filosofa greca, è ancora oggi un simbolo di libertà di pensiero, a 1600 anni dalla sua uccisione per mano di fanatici religiosi cristiani. La sua enorme cultura e il suo pensiero laico, che ella divulgava fra i suoi discepoli all’interno del Museo di Alessandria, dove insegnava matematica, astronomia e filosofia, furono enormemente ostacolati dal clima di fanatismo che permeava l’ambiente cristiano in quel tempo: così venne lapidata nel 415 in una chiesa da una folla di integralisti cristiani. Al suo nome è dedicato, perciò, il Centro internazionale Donne e Scienza, creato dall’Unesco a Torino per sostenere lo studio, la ricerca e la formazione in particolare delle donne scienziate del Mediterraneo. Vale la pena di ricordare anche la figura della prima donna medico ateniese, Agnodice, che divenne ostetrica e ginecologa per aiutare le donne a partorire, ma che, prima di affermare la sua libertà di poter curare al pari degli uomini, secondo quanto narra Igino, dovette travestirsi da uomo. Ma il più importante e significativo apporto è stato senza dubbio quello delle donne medico della famosa Scuola Medica Salernitana, organizzata, fin dal IX secolo, secondo una innovativa cultura cosmopolita e la laicità dei suoi studi che permise una moderna apertura alle donne scienziate, tra le quali la più famosa fu Trotula de Ruggiero.

Ma anche nella antica e gloriosa colonia Kroton, secoli prima, troviamo già esempi di donne protagoniste nell’esercizio del sapere, donne che, pur non rinunciando alle loro funzioni di mogli e madri, prosperarono nel campo della scienza e della filosofia. Si tratta delle donne che animarono la scuola di Pitagora, filosofo aperto alla parità di genere, che ammise nel suo circolo ben diciassette donne, secondo testimonianze che ci tramandano anche i loro nomi: Timycha, Philtis, Chilonis, Myia, Abrotelia ecc. Tra esse spiccano la stessa moglie di Pitagora, Teanò, filosofa, cosmologa, matematica e astronoma, e la figlia Damo, alla quale il padre volle affidare i suoi scritti dopo la morte.

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Donne assistono alla lezione di Pitagora

È anche vero, però, che molte donne non sono passate alla storia per il loro contributo alla scienza o alla filosofia o alla letteratura, ma hanno caratterizzato e lasciato un’impronta nei Paesi dove hanno vissuto lavorando, sacrificandosi e lottando nel silenzio della storia. Per questo motivo un regista greco, Dimitrios Kozaris, ha voluto girare un medio-metraggio in omaggio a queste donne, ispirato a un poemetto del poeta greco moderno Ghiannis Ritsos, Le vecchie e il mareLa Calabria e il suo mare, oltre alla Sicilia, sono stati gli scenari meravigliosi e spettacolari che hanno raccontato in chiave iconografica, ma anche fortemente semantica, la vita delle donne del Mediterraneo, attraverso simbologie narranti le loro storie, le vite, le attese, in un tempo sospeso tra passato e presente. Sono state materializzate figure muliebri dall’essenza mediterranea, con le riflessioni, i gesti, le abitudini della propria quotidianità, forse senza tempo definito, le quali, ad un certo punto, come in un sogno appaiono su zattere galleggianti sul mare Jonio di travolgente bellezza, che si spiaggiano con i loro bagagli domestici, simbologie delle attese e della speranza, cullate da leggere onde.

Per capire, dunque, il carattere forte e combattivo delle donne che hanno popolato i Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo e che, spesso però, hanno sparso il sangue altrui e il loro, faccio riferimento alle figure delle brigantesse, eroine tragiche protagoniste di un periodo della storia italiana ancora oggi molto dibattuto, quello della occupazione piemontese nel meridione d’Italia, dopo la fine della dominazione borbonica. Sono, per come la nostra stessa storia e società si sono sviluppate fino ai nostri giorni, figure di rottura, che incarnano indubbiamente un’anomalia rispetto ai canoni che hanno voluto una donna fragile e sottomessa. In verità la prima brigantessa dell’età moderna risale agli anni 1806-1816, anni della dominazione napoleonica e dell’occupazione francese nel Mezzogiorno. Francesca La Gamba era una filandiera, nativa di Palmi, sposata due volte e madre di due figli maschi dal primo matrimonio e di una femmina dal secondo. Un ufficiale della milizia francese occupante si invaghì di lei e, dinanzi al rifiuto delle sue avances da parte della donna, arrestò e fece fucilare i due figli maschi, per sedizione e attività contro i francesi; anche il marito venne arrestato e morì in carcere. Francesca non accettò la tragedia e la miseria della sua esistenza, cercando dunque vendetta e soddisfazione nella violenza contro il sistema. Si unì perciò a una banda di briganti attestata sui Piani della Corona che saccheggiava e creava disordini contro la milizia francese, diventandone in poco tempo il capo, per la sua arditezza e per la sua crudeltà, che si manifestò in tutta la sua efferatezza quando si trovò davanti, durante una battaglia sui Piani della Corona contro i francesi, l’ufficiale causa di tutte le sue disgrazie; qui uso le parole dello storico Vittorio Visalli: “Francesca La Gamba lo scanna, gli strappa il cuore e lo divora ancora palpitante”. Tracce di Francesca provengono ancora dal 1812, dove la “Capitanessa di Palmi” si distinse in combattimento al servizio dell’esercito borbonico, poi non si seppe più nulla della sua fine. Nel periodo della repressione dei Piemontesi nei riguardi di queste bande di briganti che facevano scorrerie e saccheggi in tutto il Meridione, dalla Campania fino alla Sicilia, le cronache storiche raccontano di tante donne le quali, spinte dalla vendetta o dalla disperante miseria, divennero amanti di briganti o esse stesse brigantesse con ruoli di spicco e di comando. Una tra le più famose fu Michelina Di Cesare, casertana, la quale, nel 1868, fu catturata, ripetutamente violentata e poi uccisa insieme al suo compagno Guerra. I loro corpi denudati furono poi esposti al pubblico ludibrio per tre giorni nella piazza centrale di Mignano (Caserta). Un famoso brigante chiamato Ninco-Nanco aveva al suo fianco una giovanissima Maria Lucia Di Nella, la quale ebbe miglior sorte in quanto fu processata e condannata a dieci anni di carcere. Anche Carlo Levi fu affascinato da questa figura e scrisse di lei, avvolgendola nella leggenda, nel romanzo Cristo si è fermato ad Eboli: “Questa Maria a’ pastora, di Pisticci, era una donna bellissima, una contadina e viveva con il suo amante, in giro per i boschi e le montagne depredando e combattendo, vestita da uomo sempre a cavallo. Essa partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine, alle imboscate, alle vendette… Dopo l’uccisione di Ninco-Nanco, non era morta e non l’avevano presa,era stata vista a Pisticci,tutta vestita di nero, poi era scomparsa col suo cavallo, nel bosco, e non s’era mai più saputo di nulla”. È doveroso, infine, ricordare Angelina Romano di 9 anni, di Castellammare del Golfo (Trapani), barbaramente trucidata dai “liberatori” del Regio Esercito Italiano il 3 Gennaio 1862: una delle pagine più vergognose di questo periodo storico. La piccola fu messa al muro e giustiziata come una brigantessa, insieme ad altri sei, compreso il prete del paese, Don Benedetto Palermo. Queste donne, protagoniste di un passato storico controverso, hanno contrassegnato, nel bene e nel male, uno spaccato sociale che merita un approfondimento antropologico che va lasciato, ovviamente, agli studiosi del settore.

Ci sono altre figure di donne che hanno caratterizzato il territorio della Calabria e che hanno suscitato l’interesse di letterati, sociologi, antropologi, pur non avendo lasciato nomi nei libri di storia, essendo rappresentanti di categorie sociali che hanno dato un contributo notevole nel campo dell’economia locale, ora scomparse a causa del cambio dei tempi e dell’evoluzione della società. Tuttavia è doveroso e interessante richiamare alla memoria queste donne che hanno lavorato incessantemente e faticosamente per le loro famiglie in un territorio povero, a prezzo di grandi sacrifici, testimonianze silenziose ma concrete di un universo femminile tenace e volitivo che val la pena di far riaffiorare perché non se ne perda il ricordo, costituendo un vero patrimonio etico oltre che di tradizioni popolari e culturali. Per introdurre queste categorie di donne senza nome, porto la testimonianza di Theodore Brenson, pittore e architetto, viaggiatore affascinato in Calabria, che in un suo disegno di Scilla, poneva, ai piedi del castello, due presenze femminili con una grande brocca e una cesta sul capo, rappresentando “donne che portano pesi”, un’immagine della donna calabrese e il compendio della sua non facile storia. Ma già molto tempo prima, era nata, da un episodio della guerra dei Greci contro gli abitanti di Caria, l’abitudine di raffigurare nell’architettura di molti edifici (vedi l’Eretteo di Atene) le cosiddette Cariatidi, sculture di donne, vestite con lunghe tuniche, impiegate come colonne al fine di sostenere architravi. Racconta Vitruvio: “I Greci, dopo aver espugnato la rocca, uccisero tutti gli uomini validi, incendiarono la città e ridussero in schiavitù le donne, senza però far loro smettere le stole e gli altri ornamenti matronali. Vollero infatti che espiassero per tutti i loro concittadini, oppresse dalla vergogna di una gravosa schiavitù…Gli architetti del tempo rappresentarono allora nei pubblici edifici le immagini delle donne di Caria nell’atto di sopportare pesanti carichi, volendo ricordare ai posteri la loro colpa e il loro castigo.” Il nostro Corrado Alvaro, più di un ventennio dopo la pubblicazione dei disegni di Brenson, avrebbe messo in risalto, nei suoi scritti, le donne che portano pesi: “Questa donna pare una schiava da liberare. Non è neppure la schiava dell’uomo: è, con lui, la schiava della necessità. (…) Vi sono donne che hanno una fatica ben più dura: le donne del popolo in genere, del popolo meridionale in ispecie: sono le donne che portano pesi. Si domanderà quale possa essere il riserbo, la grazia, la dignità e la maestà della donna sotto un carico di cinquanta e cento chili sulla testa…”. Perfino Cesare Pavese, durante il suo confino a Brancaleone, fu colpito dalle donne del luogo e scriveva alla sorella Maria il 9 Agosto 1935: “Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno… e le anfore le portano in bilico sulla testa.” Tra l’altro rimase anche affascinato dalla bellezza selvaggia e altera di una ragazza, detta Concia, lui abituato invece alle bellezze algide del Nord. La tecnica di queste donne per portare siffatti pesi era quella di porre sul capo il cercine, un panno attorcigliato a mo’ di ciambella che impedisce ai pesi trasportati sul capo di danneggiarlo e consente l’equilibrio necessario. Abitudine che ancora sopravvive nelle donne dell’Africa o dell’Oriente dove, purtroppo, esse si sottopongono, a causa di precarie condizioni di vita, a fatiche ormai sconosciute alle donne occidentali.

Le donne lavoratrici in Calabria e in Sicilia che, dopo la seconda guerra mondiale, si sono sacrificate con sudore e fatica immensa per le loro famiglie, sono state le raccoglitrici di olive e le gelsominaie, sottopagate e sfruttate, ma che, nello stesso tempo, hanno saputo rivendicare, nel caso delle gelsominaie di Milazzo, i loro diritti e un salario più alto nella metà degli anni cinquanta. Laboriose, materne e pure ribelli, dunque, come le gelsominaie del romanzo La maligredi di Gioacchino Criaco, coraggiose come le contadine in lotta contro i latifondisti nelle terre del crotonese, come Giuditta Levato, uccisa a soli 31 anni con un bimbo in grembo, nell’estrema difesa dei contadini sfruttati nel Catanzarese.

Le “bagnarote” rappresentano un mondo a sé rispetto a queste donne lavoratrici e, da reali protagoniste della storia della comunità di Bagnara, sono diventate figure mitiche dell’immaginario collettivo e, addirittura, simbolo di emancipazione femminile, tanto che a Bagnara è stato eretto un monumento per loro ad opera dello scultore Silvio Amelio. Dunque queste “donne del mare” sono state celebrate nella letteratura e nell’arte, oltre che nel racconto popolare, e sono state oggetto di studi antropologici. Chi era la bagnarota? Era lo spiritus movens della famiglia, quella che vendeva, che guadagnava, che si muoveva all’alba come attiva formica, scalza, con la merce sulla testa, intenta a vendere pesci, verdure, frutta, a percorrere chilometri sui treni e sui traghetti per la Sicilia, dove esercitava il contrabbando del sale, furba, dinamica e sfrontata. A tal proposito la prof.ssa Mirella Violi, dell’Università La Sapienza, ha condotto una ricerca storica sulla figura della bagnarota, riportando un episodio della battaglia di Lepanto del 1571, durante la quale furono imbarcate su una galea 18 donne di Bagnara, guidate da Anastasia Mandile Cesario, che aiutavano i feriti e portavano vettovagliamenti e che allontanarono perfino una galea turca a colpi di arance. Altri episodi narrano le prodezze delle bagnarote, come in occasione del terremoto del 1783 e quello del 1908. A Bagnara la donna è riuscita ad affermare la propria personalità, occupando un posto in prima linea rispettato e riconosciuto. Infatti il lavoro delle donne di Bagnara, oltreché un elemento di pura indipendenza economica, rappresenta una missione di moderna emancipazione femminile perché si presenta non più come soggetto passivo, bensì come protagonista all’interno della propria famiglia e della società. La descrizione più significativa di questa figura è quella di uno scrittore di Palmi, Luigi Parpagliolo che, negli anni Trenta del secolo scorso descriveva le bagnarote come “giunoniche, statuarie, alte, diritte, vestite di cotonina semplicemente, ma pulitissime, forti ed energiche”, che partivano all’alba, con le loro merci, per raggiungere città e paesi della Calabria e della Sicilia. Un archetipo di donna bagnarota è descritto pure dallo scrittore messinese Stefano D’Arrigo che, nel romanzo Horcynus Orca, così le definisce: “Il loro stile di vita, stile mascolo cioè di buscarsi la vita, consistette sempre in arraffamento di sale franco a Messina… le femminote sono deisse… femminote e fere, nei caratteri, in tutto… erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano tutte e due, per gradi, dalle sirene…”. Nel romanzo Un treno nel Sud, Corrado Alvaro consiglia a chi, straniero o italiano, gli domanda itinerari meridionali, di imbarcarsi su traghetti a Villa San Giovanni, per andare a vedere le bagnarote: “Donne di fatica, pellegrine da paese a paese, che portano con sé anche le loro figlie piccole, cui affidano il trasporto d’una resta d’agli a tracolla per educare alla fatica. Vestite di semplice cotonata farebbero pena se non avessero quel contegno, quel segreto, quella fierezza”. Vincenzo Spinoso, uno scrittore di Bagnara, ne parla come di creature quasi verghiane, che, quando occorre, per difendere la “roba” si fanno tigri per non soccombere e, in un suo sonetto del 1949, intitolato Bagnarotazza, dice:

Bagnarotazza, fimmina ’rresciuta,

simenza d’a Calabria fort’e sana,

ti sapi u mundu, beja, e ti saluta

maistra di trovaggh’e bona gana.

Tantissime altre sono le testimonianze storiche, letterarie e antropologiche di questa figura di donna, ma, per chiudere questo capitolo, voglio ricordare l’ultima rappresentante di un’entità etnica, ricca di tradizioni, usi e costumi ora fatalmente cancellati dal progresso e dal cambiamento della società: Donna Nina ’a Roccantoni, di Gioia Tauro. Essa rappresenta il collegamento e l’eredità della bagnarota, in quanto avviò una piccola industria del pesce, dimostrando un forte spirito imprenditoriale e una grande tempra, coinvolgendo peraltro tante altre donne nel lavoro della salamoia, che riuscirono così a dare mezzi di sostentamento alle loro famiglie. 

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Mia Martini

Lo storico Tito Puntillo, in un suo saggio in cui, ripercorrendo le letture e le narrazioni fatte da scrittori, poeti, giornalisti, contestualizza la figura della bagnarota in epoche storiche rilevanti della storia mediterranea, giunge alla testimonianza di Mia Martini, una delle più grandi interpreti della canzone italiana; per Mimì le radici bagnarote erano tutto, scrive Puntillo e ricorda che la cantante diceva che le sue origini erano la sua sola sicurezza, l’unica cosa certa della sua vita, tanto da fare un’intervista, una volta, vestita da bagnarota, in mezzo a filari di vite sopra le colline di Bagnara perché: “Le donne di Calabria si riassumono in una sintesi concettuale nella bagnarota, perché alle bagnarote mancarono la forza e la fortuna non l’onore” (Tito Puntillo). Infatti Mia Martini, da vera bagnarota, donna mediterranea nei tratti e nel carattere, dovette portare un grande peso: quello della maldicenza e della superstizione, che lei seppe affrontare con grande dignità, facendo risuonare la sua splendida voce solo nel canto in risposta alle meschine voci calunniose.

(Relazione sul tema per il Rotary Club di Locri)

 

*Carmelita Mittoro, docente di Lettere classiche