L’infelice uscita del Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti in visita ad Afragola sta creando un’onda lunga di polemiche che, purtroppo, è destinata a infrangersi contro l’inamovibile immobilismo della società italiana contemporanea. Ed è un vero peccato, perché in un periodo storico delicato in cui le basi dell’Unità d’Italia che infiniti dolori addusse al meridione viene minata dalle aspirazioni secessioniste delle regioni ricche del Paese, il riscatto morale delle nostre latitudini sarebbe potuto benissimo passare dallo sgrammaticato quanto sprezzante “vi dovete impegnare forte” che Bussetti ha avuto la saccenza di pronunciare davanti alle telecamere.
Non è questa la sede adatta a dilungarsi sui dati che dimostrano come l’implemento dei servizi scolastici meridionali sia stato negato per decenni dall’assenza di fondi statali destinati alle scuole dei nostri sempre più deserti paesi, né a spiegare che se, nonostante questo, la scuola meridionale resta a galla esprimendo non rari picchi d’eccellenza è proprio per “l’impegno forte” di centinaia di insegnanti. Ma ritengo utile ribadire, qualora non fosse stato detto abbastanza, che mai come in questa occasione il “celodurismo” leghista non ha alcuna ragion d’essere.
Indipendentemente da quanto affermato la scorsa settimana dal collega di partito calabrese Domenico Furgiuele, con quella banale frase Bussetti ha dimostrato di non avere la più pallida idea di come funzionino le cose dalle nostre parti e, convinto che i suoi natali gallaratesi gli permettano di guardare dall’alto in basso chi si spacca la schiena alle nostre latitudini solo perché, a parità di condizioni, ha un portafoglio meno gonfio del suo, ha mostrato per una frazione di secondo quale sia ancora oggi il vero volto del partito guidato dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
La verità è che stiamo parlando di persone che si permettono di farci la morale senza aver mai saputo che cosa significhi impegnarsi con dedizione e spirito di sacrificio. Di un ministro che, come tre quarti dei settentrionali, una volta terminate le proprie otto ore lavorative al giorno, non dedica un secondo di più alla sua professione se prima non vede gli spicci dello straordinario caricati sul proprio conto corrente. La correttezza sociale di questa pretesa, mi spiace dirlo, non nasconde purtroppo la povertà morale di queste persone, che si prendono il lusso di trattare con disprezzo chi, invece, per formare la gioventù, ha speso e spende ancora la maggior parte della sua vita (e non solo il tempo che gli richiede la professione).
Non voglio ridurre questo discorso a un banale “quando al sud parlavamo di filosofia in Pianura Padana andavate ancora a caccia di rane con le clave”, ma il bagaglio storico-culturale del sud Italia ha un peso e ancora oggi una valenza che nessuna corsa al profitto settentrionale potrà mai cancellare. E questo non si vede solo nella storia che ogni pietra dei nostri paesi può raccontare, o nella qualità dei nostri letterati o cantanti spesso bistrattati o dimenticati dal panorama culturale nazionale, ma nello stacanovismo morale che ogni lavoratore del meridione mette nella propria professione, nella dedizione con cui affronta ogni minuto del proprio lavoro non tanto per arrivare tranquillamente alla fine del mese, quanto nella speranza di poter vedere, un giorno, cambiare finalmente le cose. Certo, si potrebbe obiettare che se la maggior parte dei lavoratori meridionali hanno questa dedizione, rimane comunque una fetta consistente di gente troppo comodamente rifugiata nell’assistenzialismo e nella tanto fastidiosa logica del “futti futti”, una realtà purtroppo così diffusa da trasformarsi in una vera e propria piaga per l’economia generale delle nostre regioni.
Ma, senza entrare nel dettaglio del perché anche questo atteggiamento è piuttosto facilmente ascrivibile (anche) a leggi poco oculate varate da vari governi nel corso delle decadi, sarebbe bene ricordare che un’ampissima fetta di professionisti e dirigenti, nel produttivo nord Italia, vantano proprio origini meridionali, un dato che riflette quella dedizione al lavoro di cui sopra e che, indipendentemente dai luoghi comuni, le nostre capacità nei vari campi professionali superano di gran lunga quelle di qualunque settentrionale.
Ciò di cui avrebbe bisogno il meridione, dunque, è un federalismo sì, ma culturale, una secessione che, dopo aver dato alle regioni del nord l’illusoria soddisfazione di tenere le sue tasse per sé, ci mettesse nelle condizioni di riportare a casa quelle nostre professionalità che, emigrate al settentrione, lo hanno reso grande, facendogli capire una volta per tutte che cosa significhi tirare a campare contando solo sulla forza delle proprie gambe.
Quando “l’impegno forte” dei nostri primari, dei nostri insegnanti, dei nostri dirigenti di azienda, dei nostri scrittori e dei nostri statisti sarà nuovamente al servizio del territorio di appartenenza, sono pronto a scommettere che i livelli socio-economici delle due frange di territorio nazionale si livelleranno più in fretta di quanto chiunque di noi sia pronto a immaginare, e che i Ministri padani impareranno a contare fino a dieci prima di parlare in maniera tanto irrispettosa del nostro impegno…
