Come tutti gli altri dei, il nuovo lavoro del musicista e cantautore calabrese Mujura, di Roccella Jonica, che fa seguito all’omonimo album d’esordio, offre all’ascolto tanto un melange ritmico particolarmente suggestivo, intrigante e coinvolgente, evocativo di tradizione e modernità (chitarra battente, chitarra classica, chitarra acustica, lira calabrese, contrabbasso, oud, mandola,  buzuki, quartetto d’archi, clavicembalo, tamburi), quanto testi raffinati ed incisivi, idonei questi ultimi ad evocare il ripetuto gioco a nascondino fra Cielo e Terra, con il primo incline, per il tramite delle divinità che lo rappresentano, a condizionare l’esistenza degli esseri umani, sia nella loro singolarità sia come facenti parte del tutto; l’influenza deistica nel contribuire a determinarne ogni stato d’animo o propensione, egualmente a  qualsivoglia aspetto legato all’ambiente, alla vita sociale e politica, spinge dunque ognuno di noi a recitare la propria parte all’interno di un condiviso proscenio esistenziale, citando Shakespeare. Un dio può però rimanere deluso dalla propria condizione eterna (“Immortalità infelice mi hai rinchiuso nella pietra”, da Toro, dedicata a Zeus, incalzante rincorsa fra musica e parole al ritmo della chitarra battente), in una realtà dove l’essere umano non sempre anela all’eternità illusoria che potrebbe essergli garantita dalla ricchezza e dal potere, prediligendo invece l’amore (Afrodite e la sua dolce melodia nel visualizzare il sentimento amoroso in forma di un sorriso prima del pianto e viceversa). La vanità sembra essere privilegio degli dei (Cassiopea), essendo i comuni mortali consapevoli della propria caducità, al pari dei sogni che svaniscono alla prima luce dell’alba.

Mujura (foto di Nicola Tranquillo)

Purtroppo, sottolinea Mujura con la sua voce ruvida ed avvolgente, “un uomo è solo un uomo, a volte un eroe, un mago, ma non certamente un dio” (Orfeo), spesso si volta indietro, cedendo ai richiami fallaci di un’insistente realtà pronta a sfoderare terribili armi (Efesto, una ritmica trascinante che vede la partecipazione di Edoardo Bennato), per cui l’agnello, le persone umili, semplici, che vivono la loro esistenza in quanto tale, nell’alternanza composita di gioie e dolori, sono destinate a soccombere al morso del lupo, individui propensi all’arte sottile della prevaricazione (la melodica e dolente ballata L’agnello muore).  Occorre comunque proseguire lungo il personale percorso terreno, coltivando anche l’illusione quale inedita speranza, nell’affermazione di una personale verità (l’incalzante e graffiante Amaravita), mentre la notte passa ed avanza il giorno (Aurora), cullati dall’illusorietà del quotidiano (Acqua di provincia), fino a giungere alla consapevolezza di essere parte di una realtà sovrastata da “qualcosa” o “qualcuno” che tutto osserva con fare accondiscendente, congiunta all’affermazione della propria individualità, nella conclamata capacità di percorrere “sentieri sconosciuti che nessuno vedrà mai”, dall’alto di “galassie sconosciute” (l’elegiaca Mai, al colmo di una conquistata, inedita, certezza e coeva disillusione riguardo i terreni affanni). I dieci brani che vanno a comporre Come tutti gli altri dei, concludendo, rendono dunque un felice incontro fra cantautorato e musica folk, unendo, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, contemporaneità e tradizione all’interno di un personale percorso artistico, cui non sono estranee empatia e ricercatezza.

Mujura
Mujura