
Il matrimonio di Caterina, diretto da Luigi Comencini, autore anche della sceneggiatura, insieme alla figlia Cristina e a Massimo Patrizi, è un adattamento dell’omonimo racconto di Mario La Cava (scritto nel 1932 ma pubblicato solo nel 1977, dall’editore Scheiwiller), presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1982 e compreso in un progetto RAI andato in onda nel 1983, Dieci registi italiani, dieci racconti italiani. Nel corso della narrazione appare evidente la sensibilità con la quale il regista tratteggia la figura di Caterina, interpretata con vivida immedesimazione da Anna Melato, concedendo opportuno risalto al carattere della donna, tendenzialmente chiuso ma fremente di aprirsi ad una nuova esistenza.
La donna vive con i genitori, in un piccolo paese della Calabria, ha trent’anni, un’età in cui agli occhi della gente risulta disdicevole non essere sposata. Il padre (Donato Petilli) allora si preoccuperà di “procurarle” un fidanzato, Giuseppe (Stefano Madia), il quale, esternando premure e gentilezze, si manifesterà propenso al matrimonio, anche se la sua vera natura non tarderà a venire fuori… La costruzione complessiva del film appare incentrata, riprendendo quanto già scritto, sulla rappresentazione delle psicologie dei personaggi, evitando d’insistere, magari assecondando i consueti luoghi comuni, sulla visualizzazione di una società contadina ancorata alle proprie tradizioni e ai propri costumi: in virtù di ciò la condizione di Caterina, donna ormai rassegnata ad una solitudine per certi versi imposta, da particolare diviene emblematicamente universale. Ecco allora, oltre alla mancanza, ritengo voluta, di un preciso riferimento temporale (dai costumi e da qualche mezzo di locomozione si può ipotizzare un periodo circoscritto fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50), un andamento narrativo piuttosto asciutto, rigoroso per certi versi, con inquadrature strette intorno ai protagonisti, espressioni del viso, gestualità, più che insistenti sull’ambiente circostante, quest’ultimo ritratto nella sua essenzialità. La sequenza più bella credo la si possa rinvenire nel finale, idoneo a rendere, con modalità diverse dal racconto, ma egualmente pregnanti, l’amara consapevolezza di Caterina nel comprendere come quella luce che si era riaccesa in lei, l’essersi aperta alla vita, ritrovando la voglia di vivere e sognare un domani diverso, debba spegnersi ancora una volta e non per sua volontà. Se nella pagina scritta si addormentava fra le lacrime, immaginando l’uomo desiderato che bussa alla porta di casa così da fuggire insieme, nel film di Comencini è presente un’inedita visualizzazione, che evidenzia ancora di più rimpianto e risentimento sommesso per ciò che poteva essere e non è stato: alla madre (Marie – Claude Musso) che si prodiga nel consolarla, sarebbe stata infelice nello sposare un uomo inaffidabile, Caterina risponde “A me piaceva anche così”. Una conclusione diversa, ma, come spiegava lo stesso regista intervistato al riguardo, del tutto in linea con lo spirito del racconto originario, al colmo di quella triste constatazione propria di quanti abbiano assunto l’impossibilità di mutare lo stato delle cose, magari all’interno di un sospirato, mai del tutto compiuto, percorso di autodeterminazione e conseguente emancipazione.
L’ha ribloggato su Sunset Boulevard.
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