Locri? Fino all’epoca moderna era uno degli agglomerati urbani più ricchi della Penisola.
Ad affermarlo sono gli autori della ricognizione archeologica “Locri Survey 2018”, attraverso la quale un gruppo di esperti dell’Università Normale di Pisa ha dato seguito a un’ispezione archeologica condotta lo scorso anno concentrandosi sulla conformazione territoriale del nostro comprensorio. Per quanto spiegato durante la presentazione dei risultati preliminari martedì scorso a Palazzo Nieddu del Rio, la ricognizione si è concentrata sulle aree di competenza dei comuni di Antonimina, Ardore, Ciminà e Sant’Ilario, presso i quali si estendeva la Locri Magnogreca, e ha cercato di comprendere quali siano state le qualità territoriali che hanno permesso lo splendore del centro urbano tramandatoci dalle fonti antiche. Scopo ultimo della ricerca non solo far comprendere meglio agli studiosi aspetti della nostra storia fino ad oggi avvolti nel mistero, ma aiutare anche noi cittadini a vivere meglio il territorio e a comprendere come le sue qualità possano divenire una risorsa da sfruttare per lo sviluppo economico comprensoriale.
Sarebbe infatti solo attraverso uno sfruttamento sapiente delle risorse del territorio che le popolazioni protostoriche locresi avrebbero sviluppato tecniche “all’avanguardia” nel confezionamento di utensili in ferro e bronzo, che gli garantissero non solo una sopravvivenza agiata, ma di essere anche commercianti la cui qualità dei prodotti era molto ricercata. L’avanzamento tecnologico delle popolazioni di questo periodo sarebbe inoltre comprovata dalla realizzazione di grandi giare (del tipo che si sarebbe poi più capillarmente diffuso in epoca ellenica) utili a conservare e trasportare comodamente ingenti quantità di cibo e, stando ai ritrovamenti, circa 200 nel corso della campagna di quest’anno, utilizzate persino per l’inumazione dei cadaveri, a riprova del generale agio della popolazione. Con il V secolo a.C., poi, gli insediamenti rurali che costellavano le pendici delle montagne di Sant’Ilario avrebbero potuto fare affidamento anche sulla ricchezza garantita dall’estrazione di calcare, materiale con cui sarebbe stata realizzata gran parte della città di Locri Epizephiri e alcuni avamposti di osservazione sulle cime dell’Aspromonte. L’aspetto singolare, per quanto sottolineato dagli esperti della Normale, sarebbe l’assenza di santuari rurali, le cui funzioni sarebbero invece state assunte da punti votivi e poli di distribuzione di ceramiche corinzie il cui collocamento è tuttavia difficile da stabilire, dato che la conformazione del territorio fa supporre che i reperti ritrovati durante l’ultima ricognizione siano stati trasportati da frane, colate di fango o persino dal deposito di materiali inerti condotti nel corso dei secoli. I centri abitati del comprensorio avrebbero continuato a insistere su pochi assi viari molto frequentati anche in età romana, quando si sarebbe sviluppata una società rurale in cui a farla da padrone erano pochi grandi proprietari terrieri, una struttura sociale che avrebbe anticipato in qualche modo il sistema del vassallaggio diffusosi nei secoli successivi in tutta Europa e che, nel nostro comprensorio, sarebbe sopravvissuto fino alla bonifica della marina avvenuta in età contemporanea.
Questa incredibile ricerca che, concentrandosi solo sulla conformazione del territorio non riesce, per ovvie ragioni, a sciogliere il mistero legato ai commerci marittimi della comunità antica, che abbiamo ragione di credere ancora più fiorenti rispetto a quelli condotti via terra, è comunque sufficiente a confermare che quello della Locride sarebbe rimasto per lunghi secoli un territorio riccamente popolato, in grado di fondare le proprie fortune su un’economia spesso privata ma comunque in grado di dare grandi soddisfazioni alle famiglie che vi dimoravano, senza segni di quell’arretratezza economica sopraggiunta invece in seguito all’Unità d’Italia.
Un riscontro archeologico delle tesi da sempre sostenute da centinaia di meridionalisti e che pare conferma una volta per tutte che la scelta di dirottare le risorse economiche della nostra neonata nazione sul futuro Triangolo Industriale sia stata figlia di una decisione politica deliberata, e non già dettata dalla conformazione territoriale o dall’indolenza meridionale spesso denunciata dalla storia.

(Articolo pubblicato sul magazine Riviera)