Messico e nuvole, la faccia triste dell’America  cantava Enzo Jannacci nel 1970 e di cirri che vanno a coprire il consueto scenario da “bella cartolina” della repubblica federale al confine con gli Stati Uniti, ve ne sono molti e tutti insieme costituiscono una opprimente coltre di violenza e repressione, idonea ad ammantare ogni forma di legalità e libertà di espressione. Spiagge assolate ed incantevoli tramonti costituiscono uno stereotipo radicato nell’immaginario collettivo, sostenuto anche dall’attuale presidente Enrique Peña Nieto, membro del Partito Rivoluzionario Istituzionale (in carica dal 1° dicembre 2102). Claudio Cordova, giornalista calabrese, abbatte tale scenografia nel documentario La terra degli alberi caduti, produzione realizzata fra Italia e Messico, con la collaborazione dell’ Alta Escuela para la justicia, avallando uno stile essenziale e diretto nel coniugare cronaca e reportage (registi Antonio Morelli e Gabriel Dombek, riprese e fotografia di Atonatiuh Bacho). Calandosi in prima persona nella ordinaria quotidianità messicana, Cordova ci invita a seguirlo, novello Virgilio, in un vero e proprio girone infernale, rendendosi funzionale e vibrante voce narrante. Veniamo così a conoscenza di come  il cartello dei Narcos sia certo un fenomeno criminale rilevante, tra intere famiglie occupate nella produzione e nello spaccio di sostanze stupefacenti, ma anche quanto sia radicato il legame fra il narcotraffico e la spessa cortina fumogena costituita da un’agghiacciante spirale d’inganni, corruzione, malaffare generalizzato, presente nel corpo di polizia messicano, in combutta sia con delinquenti comuni (il mercato cittadino, fulcro portante per la ricettazione di merce rubata), sia con uomini di potere, insigniti di cariche governative o meno, rendendosi complice in tal ultimo caso del triste fenomeno dei desaparecidos, 33 mila persone scomparse dal 2006 a metà 2017 e più di 980 fosse comuni rinvenute.

Una conoscenza però, come si evince dal racconto di una delle persone intervistate, dovuta non ad indagini avviate dalla magistratura inquirente (i pubblici ministeri, fiscales nell’idioma locale, sono d’altronde nominati dall’autorità governativa), bensì grazie alla costituzione spontanea di movimenti collettivi, con in testa madri e mogli di individui dei quali si è persa ogni traccia da un giorno all’altro, come i 43 studenti della scuola di Ayotzinapa. “Curiosamente o disgraziatamente, nessuno ci ha aiutati perché, come si dice volgarmente, quando cade un albero tutti fanno legna. Ed è vero. Tutti hanno abusato di noi”, afferma Maria Herrera Magdalena, madre di 4 figli scomparsi ormai da dieci anni, in seguito a due eventi verificatisi in due stati differenti. Mano a mano che l’iter narrativo si snoda fluidamente e con incisiva lucidità attraverso il giustapporsi d’immagini ed interviste (efficace il montaggio di Antonio Morelli), trova visualizzazione concreta una “strategia della tensione” che non concede sconti a nessuno, organi d’informazione compresi, soggetti ad una forte dipendenza economica ed editoriale, ulteriore esternazione purulenta di un esibito autoritarismo, con tangenti in veste di sponsorizzazioni, rivolte quest’ultime a sostenere l’opera di governo. Il narcotraffico, la corruzione, divengono materia di specializzazione per quei giornalisti che intendono impegnarsi e divenire parte attiva contro i soprusi, delinquenziali ed istituzionali, vedi Javier Valdez Cárdenas, assassinato il 15 maggio 2017, a Culiacán, a pochi metri dalla sede del Río Doce, settimanale che aveva fondato insieme ad altri colleghi nel 2003, già oggetto di azioni intimidatorie, una volta pubblicate varie inchieste relative al crimine e alla corruzione in Sinaloa, uno degli stati più violenti del Messico, oltre che, negli anni, riguardanti il traffico della droga in tutto il territorio.

La terra degli alberi caduti ha il grande merito di far riaffiorare alla luce, senza filtri, una realtà che la comunità internazionale sembra voler ignorare, dove i diritti umani soccombono e 40 milioni di persone vivono sotto lo stato di povertà, anche se il Male appare essersi impossessato di ogni essere umano, striscia ovunque, insinuandosi latente anche fra le persone più umili, le quali vedono nel denaro, ciò che esso potrebbe rappresentare,  una personale redenzione dalla condizione di reietti, quando non una situazione esistenziale lambente lusso ed agiatezza. Coloro invece che ne hanno sempre gestito enormi quantità appaiono come vincenti nella loro protervia economica profusa nel poter comprare tutto e tutti al giusto prezzo, “investendo” anche in cariche governative, idonee a garantire materiale immunità. Un documentario di forte impegno civile e politico, una perspicace, spietata per certi versi, anamnesi volta ad individuare origini e natura del cancro che ha colpito società ed istituzioni messicane, sottolineandone in particolar modo le sue estese metastasi; il rispetto della legge e dell’ordine imposto dal potere costituito a proprio uso e consumo, che fa della contraddizione resa dall’impossibilità a giudicare se stesso opportuno alimento per continuare ad esistere ed affermare la propria supremazia. Il coinvolgimento di noi spettatori è dato dall’amara constatazione che, pur nella conoscenza di moventi ed esecutori, morali e materiali, la punibilità non sia possibile, in quanto uno Stato-Giuda preferisce al consolidamento di una democrazia la propensione verso derive autoritarie, tra agi e privilegi, rinnegando la salvaguardia e la valorizzazione della dignità di ogni essere umano in quanto tale. Unica speranza, non arrendersi, continuare a lottare, coltivare la speranza di poter ricostruire il tessuto sociale – familiare e garantire autonomia ed indipendenza agli organi di controllo ed informativi, come sostiene Paolo Pagliai, rettore della citata Alta Escuela para la justicia, anche nella consapevolezza, riprendendo le parole del  giudice Ugo Paolillo interpretato da Luigi Lo Cascio nel film Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2012), che “La giustizia è una cosa e le persone che dovrebbero attuarla un’altra”.

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Claudio Cordova

Claudio Cordova, 32 anni, è fondatore e direttore del quotidiano online Il Dispaccio. Ha lavorato per diverse testate calabresi, occupandosi di cronaca nera e giudiziaria e di giornalismo investigativo. Nel 2014 è stato nominato consulente esterno della Commissione Parlamentare Antimafia. Ha vinto diversi premi per l’attività giornalistica, tra cui quello del Coordinamento Nazionale Riferimenti, Giornalismo in trincea, il premio giornalistico Letizia Leviti e il premio giornalistico Arrigo Benedetti. Fa parte della rete IRPI-Correctiv per la pubblicazione di inchieste sulla criminalità organizzata, pubblicando sul Dispaccio il versante calabrese delle vicende. Ha pubblicato i libri Terra venduta. Così uccidono la Calabria – Viaggio di un giovane reporter sui luoghi dei veleni (Laruffa, 2010) e Il sistema Reggio (Laruffa, 2013).

 

Già pubblicato su Diari di Cineclub n°64- Settembre 2018