Spirito dissacratore, Rocco Futia è impegnato nel dibattito culturale dei nostri giorni, con riguardo soprattutto ai modi di pensare dell’uomo contemporaneo nella società complessa.  Collabora con riviste e periodici e si occupa di problemi pedagogici e critica letteraria. “Leonardo Pasquonzo”, “La vestale di sabbia”, “Contrappunti sull’educazione”, “Poesie” e “La maschera” sono solo alcune delle sue tante pubblicazioni che spaziano dalla saggistica al romanzo, alla poesia. Con il prof. Futia, cultore di letteratura in lingua spagnola parliamo del genio visionario degli autori sudamericani e non solo.

Dove e quando nasce la sua passione per la letteratura in lingua spagnola e in particolare sudamericana? Più che di “passione” per la letteratura sudamericana parlerei di “interesse”. Un particolare interesse per alcuni scrittori in lingua spagnola, a cominciare da Jorge Luis Borges, anzi da Juan Rulfo, l’autore che ho letto per primo nella lingua originale. Credo che tale interesse sia sorto agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, non ricordo con precisione se dopo aver letto Il nome della rosa oppure avendo scoperto Borges dopo la lettura di Pedro Páramo di Rulfo o per caso, forse in un momento in cui dalla saggistica ritornavo alla narrativa.

Quali sono le caratteristiche che rendono gli autori in lingua spagnola in un certo senso privilegiati nel suo percorso di studioso? La domanda è complessa, e complessa sarebbe una risposta al riguardo. Certo la lettura dei racconti di Borges (in italiano, L’Aleph e Finzioni, in particolare) e la lettura di Gabriel García Márquez (Cent’anni di solitudine, in italiano), mi hanno fatto scoprire – come lettore – la bellezza del linguaggio di Borges (il suo stile narrativo, il ritmo della prosa, i simbolismi, la tecnica utilizzata nei racconti, la sua letteratura fantastica…) e la magnificenza strutturale del romanzo di Márquez (il realismo magico – presente anche in Calvino, Eco, Kundera, ad esempio – la struttura stessa del romanzo, la forza dei personaggi e dell’ambientazione, la peculiarità della lingua). Per sintetizzare e dare una risposta, mi riferisco a una mia sensazione, innanzitutto: la sensazione di vedere come una storia veniva raccontata, o come la lingua si rinnovava. Ed ebbi poi la conferma leggendo Mario Vargas Llosa e altri.

Nei suoi scritti attinge in qualche maniera ai modelli di letteratura di matrice spagnola? Posso affermare che ha esercitato una certa influenza Borges ( e in parallelo Eco, tanto per citare). Per i temi trattati, per il linguaggio, per la costruzione di metafore, per il sottile umorismo, per la prosa “letteraria e signorile” che Borges  – nelle cui mani tutto si converte in letteratura – utilizza quasi sempre nei suoi scritti. Non parlerei di modelli, in quanto le mie letture sono state varie e diversificate nel tempo. Mi riferisco alla saggistica, che in certi momenti ho preferito alla narrativa, senza mai abbandonare né l’una né l’altra. Ho letto infatti saggi scritti benissimo, meglio di molte opere di narrativa.

Quali sono le peculiarità della narrativa in lingua spagnola che poi affascinano incontrando però il successo in tutte le lingue del mondo? Posso parlare sulla base di una esperienza soggettiva di lettura e di gradimento. E confesso che spesso mi ritrovo davvero sorpreso di fronte alla grande quantità di titoli che occupano il catalogo giornaliero di libri di narrativa (per limitarsi a quelli, in questa sede). Le peculiarità “di base” sono quelle comuni ad altre lingue: costruzione del contesto, ambientazione, temi, vissuti sociali. Da qui, poi, procedono gli stili dei singoli autori in lingua spagnola. Né più né meno avviene in Italia o in Francia, anche se il lettore percepisce quasi sempre come altra la narrativa letta in una lingua diversa. Errore di prospettiva, secondo me. Nel senso che si pensa che chi scrive in francese, a esempio, o in spagnolo, interpreti la realtà “narrata” in maniera differente. Ma i “canoni” della scrittura – pur non essendo codificati una volta per tutte (sarebbe la fine della letteratura) – sono lì per tutti. Se leggiamo Sheakespeare, o Cervantes, o Balzac e Flaubert, ci immergiamo in un ambiente, ci imbattiamo in personaggi i quali, anche se rispecchiano il nostro quotidiano, ci appaiono spiriti di mondi diversi dal nostro. E lo stesso accade se leggiamo Camilleri o Umberto Eco, o Baricco. Comunque non esiste il fascino della narrativa in lingua spagnola, in sé, bensì il fascino che suscitano alcuni autori e alcune opere scritte in quella lingua. La mia esperienza di lettore è “autodidatta”, potrei dire spontanea. Infatti mi lascio prendere da autori come Enrique Vila-Matas, o Eduardo Mendoza, Javier Marías, o Vargas Llosa e García Márquez, o Julio Cortázar, Borges (ormai un classico universale), o Padura Fuentes (tanto per citare) per le peculiarità dello stile, l’umorismo, la “sperimentazione” narrativa (Vila-Matas è un esempio calzante, a proposito). Così come mi succede con Faulkner o Nabokov, o Joseph Roth e Conrad, Milan Kundera, eccetera. Un riferimento a sé meritano i temi trattati. Ma alla fine il lettore decide seguendo i suoi gusti e le sue aspettative.

Quando nell’ultima pagina di Cien años de soledad leggiamo: 

[…] Macondo era ya un pavoroso remolino de polvo y escombros centrifugado por la cólera del huracán bíblico, cuando Aureliano saltó once páginas para no perder el tiempo en hechos demasiado conocidos, y empezó a descifrar el instante que estaba viviendo, descifrándolo a medida que lo vivía, profetizándose a sí mismo en el acto de descifrar la última página del los pergaminos, como si se estuviera viendo en un espejo hablado. Entonces dio otro salto para anticiparse a las predicciones y averiguar la fecha y las circunstancias de su muerte. Sin embargo, antes de llegar al verso final ya había comprendido que non saldría jamas de ese cuarto, pues estaba previsto que la ciudad de los espejos (o los espejismos) sería arrasada por el viento y desterrada de la memoria de los hombres en el instante en que Aureliano Babilonia acabara de descifrar los pergaminos, y que todo lo escrito en ellos era irrepetible desde siempre y para siempre, porque las estirpes condenadas a cien años de soledad no tenían una segunda oportunidad sobre la tierra. [Gabriel García Márquez, Cien años de soledad, Madrid, Real Academia Española, Alfaguara 2007, pp. 470-1].

[…] Macondo era già un pauroso vortice di polvere e macerie centrifugato dalla collera dell’uragano biblico, quando Aureliano saltò undici pagine per non perder tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l’istante che stava vivendo, e lo decifrava a mano a mano che lo viveva, profetizzando se stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra. [Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, Milano, I edizione Oscar Mondadori, 1983, p. 378].

rimaniamo, credo, con il dito in mezzo alla pagina, quasi per non fermare la narrazione che finisce, e per fissare nel ricordo le sensazioni che lo scrittore ci ha regalato. Potrei fare altri esempi di splendida prosa. Quando leggiamo le pagine del giallo sociale di Leonardo Padura Fuentes, ci accorgiamo che la Cuba descritta in quei libri assomiglia per molti aspetti ad altre realtà. I giallisti italiani, i noiristi e i thrilleristi credo sappiano bene a cosa mi sto riferendo. (E Camilleri docet). E ci sembra che scompaia la Cuba della dittatura e della “libertà sospesa”. Mi viene in mente una differenza:  certi autori ci offrono pagine e pagine di “cronaca narrativa” più che di racconto-testimonianza. Si tratta di espressioni molto vicine al realismo, ma non appartengono alla cosiddetta non-fiction (Svetlana Aleksievic con la sua scrittura non-fiction ha vinto il Nobel per la letteratura). Talvolta appartengono alla cronaca raccontata, al ricordo autobiografico espanso, ma di rado incontriamo i grandi tempi e la grande scrittura. Il discorso sarebbe lungo: dietro il successo di un libro c’è sempre un insieme di “interessi”: il marketing, la fabbrica editoriale, la critica di parte (anche pagata)… Un esempio clamoroso: Gomorra rientra in questo genere di riflessioni; accanto al racconto-testimonianza-fotografia di una realtà non vedo la grande scrittura. Ma il tornaconto editoriale, la pubblicità senza la vera critica letteraria, e il cinema. Aggiungo la distinzione tra la narrativa letteraria e la narrativa commerciale. E davvero, alla fine, il tempo la sa lunga. Citavo poc’anzi Enrique Vila-Matas per la particolarità della scrittura, per l’umorismo. Ma ricordo i “non-luoghi” dello scrittore barcellonese. Le città pur presenti nella sua opera, svaniscono appena la parola le sfiora; ne escono contorni spaziali e sociali, un distanziamento nel tempo. Anche se il lettore coglie il presente, il tempo è in movimento, e quasi impalpabile. Di Vargas Llosa ammiro la narrativa in certo senso “pura”, frutto della matura artesanía dello scrittore peruviano. Lo stesso si può dire dei suoi suoi saggi o delle opere di teatro.

Carlos Ruiz Zafón, il quale ha ottenuto il successo con L’ombra del vento (diventata negli anni una tetralogia), ci ha offerto una storia tra il genere fantastico e il thriller, scritta bene. Di Eduardo Mendoza ho apprezzato la bella scrittura nel suo romanzo Riña de gatos. Oltre alla storia raccontata, ben ambientata. Dello stesso autore ammirevole è l’umorismo leggero con cui racconta le vicende del suo detective pazzo che risolve i casi che sfuggono alla polizia. E poi Javier Marías, la cui scrittura a molti non piace perché ritenuta barocca, dal ritmo lento, ma è profonda e anche il ritmo digressivo può piacere, se considerato dal punto di vista della costruzione, dimenticando per un momento che il linguaggio non è proprio dell’uomo di strada. Ma a ognuno il suo, si dice. C’è gente che non ha mai letto Borges e mai lo leggerà, perché Borges non ha scritto romanzi, perché non fa emozionare. Ma la sua scrittura è raffinata, colta, innovativa, precisa.

Esempi in Italia: Calvino, Baricco, Eco, la Morante e la Maraini… (Aggiungete alla lista chi vi pare, ma il paradigma è quello.) Concludo dicendo che per principio non parlo degli autori in cammino in questi giorni: la storia della letteratura dirà per tutti, a parte il pensiero della critica militante (non di quella “markettara”). Le letterature si assomigliano, ma marcano distanze tra di esse: per applicare una estemporanea teoria del rispecchiamento, mi pare di poter dire che lo stile dello scrittore, pur essendo qualcosa di unico, rifletta in qualche misura lo spirito del momento in un dato luogo e in un dato spazio socio-geografico (penso che cada, qui, la concezione unitaria dello spazio e del tempo ai giorni della Rete e del Grande Fratello, perché è davvero tutto relativo). Se poniamo mente agli autori detti giallisti, thrilleristi o noiristi, le differenze talvolta sono marcate. 

Jpeg
Cover Marquez

Qual è, per concludere, il Suo pensiero sull’interazione tra letteratura spagnola, e non solo, e aspetti socio-politici? C’è l’autore che fa degli aspetti sociali un sottofondo alla sua scrittura, prima ancora di concepire un soggetto e una trama polizieschi. Per esempio, ci sono scrittori di lingua spagnola che hanno cercato e cercano la relazione tra società civile e narcotraffico, tra vita civile e dittatura, tra potere costituito e corruzione. Oggi più di uno scrittore guarda in lungo e in largo, anche se la società è complessa, anzi ipercomplessa. Si pensi, a esempio, alla recente esplosione degli aspetti religiosi o pseudoreligiosi del vivere civile, agli attacchi alla democrazia. Come si pone la letteratura di fronte al dramma dei rifugiati e dei migranti? Già, dicono molti, la letteratura non fa politica, non si occupa dei problemi sociali… Voglio ricordare che 1984 fu un’anticipazione provocatoria di un certo discorso sociologico, al di là delle analisi di settore, e che nell’ambito cinematografico lo fu Ultimo tango a Parigi o Amarcord… In tutta sincerità, oggi spaventa la vastità della letteratura mondiale: non si riesce più a seguire le tendenze, se non quelle del mercato editoriale, anche perché è molto cambiata l’editoria (il dibattito del prossimo futuro, prima o poi, si concentrerà sulla dicotomia qualità/quantità, opera letteraria/opera destinata semplicemente al mercato)… E in fondo, i lettori diminuiscono: le nuove tecnologie sociali della comunicazione stanno espropriando milioni di giovani e di giovanissimi del loro spirito creativo, emarginandoli in una realtà davvero virtuale. Ecco perché i libri rimangono sugli scaffali delle librerie.