Pierfrancesco Multari, sommelier esperto di vini calabresi, e il vignaiolo Cataldo Calabretta si sono confrontati su cosa significa oggi parlare di vino naturale, ma soprattutto della filosofia che sta alla base. Al convegno dal titolo “Calici di Natura”, nella cornice del Teatro al Castello di Gioiosa Ionica (RC), inevitabile la contrapposizione tra vino naturale e vino convenzionale, quale scegliere e, nello specifico, quali le differenze.
Nessuna normativa che legiferi sul vino naturale in quanto tale, da intendere nell’accezione più semplice: vino prodotto in modo genuino. Parlare, ma soprattutto produrre vino naturale significa ritornare alle origini, limitare al massimo l’intervento dell’uomo se non per eliminare quelle problematiche che si presenterebbero in vigna e in cantina e che creerebbero non pochi problemi al vino stesso.

Per Calabretta solo capendo l’evoluzione storica si può capire ciò che è accaduto nel mondo, in Italia e anche nella sua zona, Cirò, dove per molti anni la tendenza è stata quella di assecondare il mercato, spingendo al massimo la produzione, “consumando” i terreni, abbassando i prezzi, standardizzando tutto. «L’obiettivo era quello di creare ricchezza attraverso una produzione quantitativamente importante, cosa che si è rilevata un insuccesso, e Cirò è stato un territorio che ha pagato un prezzo troppo caro. Da questo punto in poi ci si è resi conto dei danni che si stavano facendo in Calabria, ma non solo e, con l’andare del tempo, spontaneamente, le persone hanno cercato di ribaltare la situazione. I piccoli artigiani del vino hanno preso coscienza».

Erano gli anni ’80 e ’90, per Multari il periodo barocco della produzione dei vini, dove la tendenza era costruire vini irreali senza più nessun legame con il territorio. L’epoca, ha sottolineato il concetto Calabretta, non del territorio ma dei guru del vino. Negli anni le prospettive sono cambiate il vino ha sempre di più e con maggior vigore acquisito una funzione cultura importante e, in Calabria, in particolar modo negli ultimi decenni, si è verificata la stessa cosa.
«A Cirò, io e un gruppo di piccoli produttori ci siamo trovati di fronte alla narrazione di una “leggenda” che parlava di un vino storico, con determinate e precise caratteristiche che ad un certo punto non è andato più bene per il gusto che pretendeva il mercato. La visione internazionale esigeva altro! Per noi ora l’importante è che quello che produciamo venga apprezzato, non possiamo pretendere che piaccia e tutti. Con questa visione, la nostra visione, non si fa industria, si rimane contadini, vivendo del proprio lavoro con la consapevolezza che portiamo avanti la nostra identità. Nel nostro territorio – ha proseguito Calabretta – non abbiamo un’eredità di vignaioli artigiani alle spalle e quindi tutte le decisioni che prendiamo sono a nostro rischio e pericolo. Il valore più grande è che questo tipo di lavoro crea la necessità di fare comunità, dove sapere ed esperienze vengono condivise. Per fare questi vini, per capirli, ci capita sempre più spesso di sederci intorno ad un tavolo, degustare, raccontare il lavoro che si fa. Ci siamo accorti di aree differenti di uno stesso territorio che con la tecnologia di cantina erano andati persi».

Si è anche parlato di sensazioni fisiche ed energetiche differenti tra un vino convenzionale ed un vino naturale, evitando di fare l’errore di pensare che un vino naturale sia quello senza solfiti. A prevalere è la qualità del territorio, la tecnica che piano piano si affina, la fermentazione spontanea senza controllo della temperatura, credendo nell’espressione della vigna e del vitigno.