Abbiamo intervistato Isaia Sales, saggista e politico, che venerdì 20 aprile sarà protagonista di un incontro che si terrà nelle sale del Grand Hotel President di Siderno. Esperto di storia delle mafie, Sales ci spiega perché lo Stato ha una visione distorta della criminalità organizzata e sta sbagliando l’approccio utile a sconfiggerla.

Iscrittosi giovanissimo al Partito Comunista, Isaia Sales ha diviso la propria vita professionale tra l’impegno politico e lo studio del fenomeno mafioso. Se il primo si è declinato nel ruolo di Sottosegretario al Tesoro durante la legislatura Prodi del 1996, il secondo lo ha trasformato in uno stimato docente di storia delle mafie e in un saggista che da trent’anni cerca di approfondire il fenomeno mafioso e di sfatarne i falsi miti che lo permeano. Nell’ambito del ciclo di incontri sul meridionalismo promosso dall’Amministrazione Comunale, Sales sarà a Siderno per parlare dei temi trattati in Storia dell’Italia mafiosa (Rubbettino) e Le mafie nell’economia globale (Guida). Lo abbiamo intervistato per darvi un’anticipazione dei temi al centro del dibattito della prossima settimana.
Fin dal suo primo saggio ha messo in chiaro la volontà di analizzare nel dettaglio il fenomeno mafioso italiano in tutte le sue derivazioni. Quali differenze ha riscontrato tra ‘ndrangheta, Camorra e Mafia?
Pur appartenendo alla stessa famiglia, direi che sono tre sorelle molto differenti tra loro. Utilizzano gli stessi metodi, ma si manifestano in maniera differente. Nascono nello stesso periodo storico, con la fine del feudalesimo, e intraprendono strade diverse a seconda del contesto in cui trovano terreno fertile per svilupparsi. L’assenza di grandi città e di solide relazioni di scambio culturale e commerciale in Calabria, ad esempio, fa sì che la criminalità organizzata di zona risulti immediatamente visibile, esattamente come ancora oggi accade con la Camorra e la Mafia che agiscono negli hinterland campani e siciliani. Che le tre declinazioni mafiose prendano spunto da uno stesso ceppo, comunque, lo si può vedere da piccoli particolari. La ‘ndrangheta, infatti, ha diversi punti di contatto con la Camorra ottocentesca, soprattutto nell’ambito della ritualità. Alcuni giuramenti utilizzati ancora oggi dalle ‘ndrine fanno pensare che ci sia una sorta di filiazione tra la mafia calabrese e quella campana del XIX secolo. Non credo sia un caso, infatti, se nell’800, quando ancora non era stato coniato il termine ‘ndrangheta, la criminalità organizzata della vostra regione veniva definita “Camorra Calabrese”. La sopravvivenza della ritualità ancora oggi, d’altro canto, è un punto di contatto con la Mafia siciliana, che, differentemente da quanto accade con la criminalità organizzata campana, continua a dare grande importanza alla famiglia di sangue e non a quella acquisita. Le modalità di controllo del territorio, invece, sono simili per tutte le tre derive mafiose di cui stiamo parlando, con la sola differenza che la Camorra napoletana, dunque quella che opera nel solo territorio di competenza del capoluogo, ha meno interesse a stringere relazioni con il mondo politico rispetto a quanto non faccia la ‘ndrangheta, che preferisce, invece, infiltrarsi nella macchina amministrativa dei piccoli comuni occupandosi, nelle grandi città, solo dei traffici.

Per parafrasare il sottotitolo del suo libro “Storia dell’Italia mafiosa”, perché questo modello ha avuto tanto successo?
Perché non siamo dinanzi a una criminalità di contrapposizione allo Stato, sebbene ci si ostini a definirla “antistato”. Rispetto ai briganti, i mafiosi hanno avuto l’accortezza di non contrapporsi frontalmente alle istituzioni, ma di intavolare un dialogo con esse. Per tale ragione, quella da loro attuata è una violenza di relazione, che si mette al servizio di chi detiene il potere e gli propone affari per comune convenienza. Si aggiunga a questa formula la capacità di evolversi nel tempo e di adattarsi al mutare delle condizioni e il gioco è fatto.

Nei suoi saggi cerca di superare la convinzione che il fenomeno delle mafie sia un frutto esclusivo del Mezzogiorno. Ma perché questa convinzione è tanto diffusa?
Perché le mafie hanno sempre avuto come interlocutore privilegiato le classi dirigenti meridionali. Quando queste ultime sono riuscite a salire al Governo è stato anche grazie ai rapporti che avevano instaurato con la criminalità organizzata, ma ciò che si è sempre finto di non vedere è il fatto che i dirigenti del centro e del nord del Paese conoscevano benissimo l’entità di questi rapporti e la sfruttavano a loro vantaggio restando al contempo “puliti”. Ritengo che la stessa Unità d’Italia abbia avuto successo proprio perché le classi dirigenti settentrionali sapessero con quali controparti del sud stringere alleanze, sfruttando in tal modo il contributo indiretto delle mafie per il raggiungimento dei propri scopi. In questo modo il nord si è dimostrato realtà avversa al fenomeno mafioso propriamente detto, quello che fa soldi con la violenza, e ha invece stretto affari con la criminalità laddove gli interessi coincidevano. Oggi è palese che le mafie sono entrate nel tessuto economico del nord Italia al fine di tutelare specifici affari, tanto da poter affermare che la criminalità organizzata sia radicata allo stesso modo in ogni area del Paese. Laddove nel Mezzogiorno questo radicamento è territoriale, tuttavia, a nord è puramente economico.

Quindi non è vero che le mafie sono un ostacolo allo sviluppo economico del meridione?
È una questione controversa. Le mafie sono certamente un fattore: fanno girare l’economia ma senza creare sviluppo, concorrono alla tenuta economica di certe realtà ma non si preoccupano di farle crescere. Ci sono centinaia di paesi o quartieri del meridione in cui, senza determinati traffici, la vita economica sarebbe assai più complicata di quanto non sia, ma al tempo stesso non hanno un’economia di mercato degna di tale nome. Ritengo sia una delle contraddizioni più evidenti delle mafie.

Come giudica, allora, le contromisure adottate dallo Stato? Considerato quanto ci ha appena detto non sarebbe corretto affermare che i blocchi degli investimenti al sud per non aiutare le mafie, ad esempio, finiscono proprio con il fare il loro gioco?
È proprio così, in effetti. Se si pensa che per sconfiggere un male bisogna soffocare l’economia della zona in cui esso è radicato si stanno creando consapevolmente le condizioni per fare sì che essa rimanga indietro. Il blocco degli investimenti è solo una favola che fa passare il messaggio che il terziario sia l’unico settore trainante per l’economia del Mezzogiorno e che espone ancora di più il fianco del sud ai denti della criminalità organizzata. Piuttosto che attuare blocchi alla cieca bisognerebbe foraggiare settori economici in cui c’è innovazione tecnologica o produttiva. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che i mafiosi non sono imprenditori, ma si limitano a operare dove c’è meno concorrenza e massiccia presenza di capitali e manodopera. È per questa ragione che sono molto presenti nell’edilizia e nelle produzioni che dipendono dall’autorizzazione pubblica e amministrativa, mentre non riescono a entrare nelle fabbriche di auto o nei settori in espansione.

In una recente intervista che ha rilasciato a “Repubblica” dichiara di rifiutare l’idea che il risultato delle Elezioni Politiche al sud sia stato influenzato dalle mafie. Perché ha questa convinzione?
Perché le mafie votano, ma è difficile sapere per chi hanno votato. Solo in casi anomali è stato possibile, in passato, dimostrare che a una determinata tornata elettorale avevano appoggiato un partito piuttosto che un altro: penso all’appoggio al Partito Socialista emerso in Sicilia, a quello ai liberali a Casal di Principe o anche a quello al Partito Radicale per le posizioni espresse sulle carceri e le libertà personali. In linea di massima, tuttavia, durante le Elezioni Politiche è difficile condizionare un voto, ragion per cui sono convinto che le mafie aspettino piuttosto di vedere i risultati per poi studiare come condizionare i vincitori. Il condizionamento pre elettorale è invece più semplice in occasione delle Amministrative o delle Regionali, in cui si conoscono direttamente i candidati da supportare e si fanno loro favori che ingenerino un sentimento di riconoscenza non appena ci si insedia. Ecco perché Comuni e Regioni sono gli ambienti in cui le mafie hanno più interesse a infiltrarsi.

Sempre su “Repubblica” afferma che il Partito Democratico ha dimostrato alla criminalità organizzata che nessun sistema, soprattutto politico è impenetrabile. In che modo l’avrebbe fatto?
Abbassando la morale nel reclutamento del suo personale politico e attraverso l’azione dei suoi amministratori. Non dobbiamo dimenticare che molti rappresentanti del PD appartengono alla scuola del Partito Comunista, che ha vantato l’adesione di esponenti che hanno fatto della lotta alle mafie una loro identità, come Pio la Torre, Giovanni Losardo, Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti. Oggi, invece, assistiamo a un coinvolgimento diretto di alcuni rappresentanti del PD, che, indipendentemente dall’impegno espresso dai loro colleghi, tradiscono totalmente quella morale, limitandosi all’atteggiamento antimafioso storicamente tipico di altri partiti.

Quale interesse c’è, allora, a non fermare la mafia?
Più che un interesse c’è un approccio insufficiente. Dall’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino abbiamo vissuto il periodo d’oro della lotta alle mafie ed esperito cambiamenti radicali in diverse realtà prima permeate dalla criminalità organizzata. In alcuni ambienti è stato dimostrato con forza ed efficacia che le mafie possono essere sconfitte e sono stati moltissimi i sodali, i boss e i latitanti catturati. La mafia, tuttavia, non è solo un problema di ordine pubblico ma di contesto, economia e politica, cosa tanto più evidente proprio in Calabria, dove la ‘ndrangheta è risultata l’organizzazione meno danneggiata dal rigurgito antimafioso dello Stato. Per questa ragione, immaginare che la lotta alle mafie si vinca sul piano militare non può essere l’approccio corretto. Questa è solo una delle condizioni necessarie, ma di certo non è l’unica. Fino a quando non si comprenderà che ci troviamo dinanzi a fenomeni in cui la repressione non può essere strumento dissuasivo permanente e, in altre parole, non si comprende che è necessario agire sul contesto socioeconomico affinché non crescano nuovi mafiosi, il Mezzogiorno continuerà a produrre ciclicamente gli stessi problemi. La lotta contro la mafia deve diventare la lotta contro le condizioni a cui il Sud è rimasto ancorato per secoli. Una volta cambiate queste condizioni, le mafie non avranno più ragione di esistere.

Intervista realizzata per il nº 16/2018 del settimanale “Riviera”

Jacopo Giuca